Squid Game: vincere a tutti i costi

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Negli ultimi tempi, si è sentito molto parlare della serie tv “Squid Game” (“Il gioco del calamaro”) creata in Corea del Sud e diventata in poco tempo la più vista di sempre su Netflix.

La storia, in nove episodi, è incentrata su un gruppo di persone, con gravi problemi economici, disposte a tutto pur di migliorare la propria condizione attraverso un torneo a eliminazione basato su giochi d’infanzia. Tutto manovrato da un club di super ricchi, i concorrenti giocano superando delle difficoltà per vincere un premio finale di 45,6 miliardi di won (circa 33 milioni di euro), ma soltanto uno può salvarsi perché il non superamento delle prove implica la morte.

All’interno della serie, se da un lato vengono utilizzati colori pastello vivaci e quelle forme molto familiari ai bambini con le quali imparano a disegnare, ad incastrare o ad inserire (cerchio, quadrato, triangolo), dall’altro risultano ridondanti i temi della competizione e della violenza; in alcuni episodi, infatti, vediamo chiaramente l’accostarsi della nostalgia per l’età infantile e lo spaccato di una società moderna complessa, di una realtà crudele, dove l’essere umano, di fronte alla sopravvivenza, diventa spietato.

“Squid Game” tra psicologia e sociologia

La psicologia sociale, è lo studio interamente dedicato al comportamento sociale, al modo in cui le persone interagiscono tra di loro e a come i loro pensieri, sentimenti, comportamenti o intenzioni sono influenzati dalla presenza, attuale o implicita, degli altri (Allport,24).

Ma perché, così come avviene nella serie, gli individui sembrano comportarsi in modo diverso quando fanno parte di un gruppo?

Secondo gli psicologi, una delle ragioni è ravvisabile nella possibilità di sperimentare uno stato noto come deindividuazione, o deindividualizzazione; un concetto, questo, introdotto dall’antropologo e psicologo francese Gustave Le Bon, e ripreso da Philip G. Zimbardo, a seguito della realizzazione dell’esperimento carcerario di Stanford riguardo il comportamento delle persone che cambia in base al proprio gruppo di appartenenza. I ricercatori hanno creato una prigione finta nel seminterrato dell’edificio di psicologia della Standford University e selezionato 24 studenti universitari per svolgere i ruoli di detenuti e di guardie. Ogni cella ospitava tre prigionieri che dovevano rimanere 24 ore al giorno in carcere fino alla fine dell’esperimento; le guardie, invece, avevano turni di 8 ore. L’esperimento di Standford fu interrotto dopo appena sei settimane dall’inizio a seguito di episodi di forte violenza; dopo appena due giorni, infatti, i detenuti iniziarono a protestare per la loro condizione, strappandosi le magliette e rinchiudendosi nelle celle mentre le guardie gli infliggevano condotte sempre più violente a livello fisico e psicologico.

Dall’analisi delle osservazioni, dunque, Zimbardo deduce che le persone si uniformano ai ruoli sociali specialmente quando sono fortemente stereotipati, come quelli delle guardie carcerarie, e quando l’ambiente costituisce un fattore determinante nel manifestarsi del comportamento brutale. Secondo Zimbardo, durante l’esperimento, il processo di deindividuazione spiega tale comportamento dei partecipanti che, all’interno di norme precise di gruppo, perdono il proprio senso di identità e responsabilità mostrando come le singole personalità possono essere offuscate quando assumono posizioni autoritarie. Per questo, i soggetti rispondono a bisogni specifici derivanti dalla specifica situazione che vivono, piuttosto che riferirsi alla propria morale o alle proprie credenze; supportano l’ipotesi situazionale del comportamento piuttosto che disposizionale o personologica.

Nonostante diversi dubbi sollevati dalla comunità scientifica riguardo l’esperimento di Standford, esso rimane, ancora oggi, un importante studio nella comprensione di come la situazione può influenzare il comportamento umano (Haney, C.,Banks,W.C.,& Zimbardo,P.G., 1973).

A fronte di quanto esposto, sottolineiamo, dunque, come gli psicologi utilizzano il termine deindividuazione per riferirsi allo stato in cui le persone si comportano diversamente da come farebbero normalmente perché fanno parte di un gruppo; agiscono in modo diverso da come farebbero da singoli individui (Cogent Psychology 2017).

In un articolo del 1995 sull’identità sociale, i ricercatori Stephen Reicher, Russell Spears e Tom Postmes suggeriscono, inoltre, che l’appartenenza a un gruppo induce le persone a passare dalla categorizzazione come individui alla categorizzazione come membri del gruppo. Quando ciò accade, l’appartenenza al gruppo influisce sul comportamento delle persone che hanno maggiori probabilità di comportarsi in modi che corrispondono alle norme del gruppo. I ricercatori suggeriscono la teoria del modello di identità sociale della deindividuazione (SIDE) secondo il quale quando le persone sono deindividuate, non agiscono in modo irrazionale ma agiscono in modi che tengono conto delle norme di quel particolare gruppo.

Sopravvivenza: la lotta per le risorse

In una qualunque giornata, la maggior parte di noi interagisce con un’ampia gamma di persone, amici, colleghi di lavoro, familiari e sconosciuti in svariati contesti come il lavoro, la scuola e cosi via, mettendo in atto un comportamento sociale diversificato e sfaccettato. All’interno delle relazioni, poi, così come avveniva alle origini seppur con forme primordiali, l’individuo deve assolvere al suo compito di sopravvivere accedendo alle risorse necessarie e ricorrendo all’aggressività o alla cooperazione per ottenerle.

In particolare, per aggressività impulsiva si intende una reazione a uno stato interno negativo (Anderson e Bushman, 2002; Green, 1998) mentre l’aggressività premeditata emerge quando le persone decidono consapevolmente di usarla per conseguire i loro scopi. Inoltre, l’idea che l’aggressività possa essere un mezzo per conseguire un fine, come avviene all’interno della serie Squid Game, viene espressa anche nel principio della frustrazione-aggressività, secondo il quale le persone aggrediscono quando si sentono frustrate, ossia contrastate nel conseguimento dei loro obiettivi (Berkowitz,1989; Dollard et al.,1939).

D’altro canto, la cooperazione è quel comportamento messo in atto da due o più individui che porta a un mutuo beneficio (Deutsch,1949; Pruitt,1998) che diventa, di fatto, una delle più grandi conquiste della nostra specie (Axelrod,1984; Axelrod e Hamilton, 1981). La cooperazione, però, a volte richiede che qualcuno si assuma un rischio iniziale apportando un beneficio a un individuo (che non ha ancora ricambiato) fidandosi che lo farà. In questo caso l’appartenenza a un gruppo, se da un lato tende a ridurre i rischi associati con la cooperazione, dall’altro prevede la scelta di compiere azioni riprovevoli che nessuno dei loro membri compierebbe se fosse solo (Sumner, 1906).

Conclusioni

Già Aristotele nel IV secolo a.C. aveva affermato la tendenza dell’essere umano alla socialità, siamo per natura portati a stare in contatto con l’altro. Se in passato si credeva che il cervello fosse prevalentemente razionale e logico, da qualche anno a questa parte la ricerca nell’ambito delle neuroscienze e della psicologia ha confermato che l’essere umano è un animale sociale e che il nostro comportamento e la nostra identità sono strettamente costruiti sul rapporto con l’altro. Uno degli aspetti più importanti della socialità, infatti, è quello di farci sentire appartenenti ad un gruppo.

Nella nostra società, oggi più di ieri la competitività e la cooperazione vanno di pari passo nel comportamento umano (Individualismo e cooperazione, Jervis, 2003).

Sembra, dunque, che la serie Squid Game mostri uno spaccato della società moderna spinta dall’incessante bisogno di primeggiare, di prevalere gli uni sugli altri, di spingersi verso nuovi traguardi anche a costo di morire.

Dr. Micol Lucantoni

Dr. Imma Ruocchio

 

Bibliografia        

  • Reicher S.D., R. Spears e T. Postmes. “Un modello di identità sociale dei fenomeni di deindividuazione”. Rivista europea di psicologia sociale , vol. 6, n. 1, 1995, pagg. 161-198. 
  • Haney C., Banks W. C. & Zimbardo P. G. (1973) A study of prisoners and guards in a simulated prison. Naval Research Review, 30, 4-17.
  • Schacter D. L., D. T. Gilbert, D. M. Wegner, Psicologia generale, Zanichelli, 2009.

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