FAMIGLIA ALL’IMPROVVISO – Una recensione a 8 mani

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TITOLO: Famiglia all’improvviso

ANNO: 2016

REGIA: Hugo Gélin

ATTORI: Omar Sy, Clémence Poésy, Gloria Colston, Ashley Walters, Antoine Bertrand

SCENEGGIATURA: Hugo Gélin, Mathieu Oullion

PRODUZIONE: Vendôme Production, Mars Films, TF1 Films

PAESE: Francia, Gran Bretagna

 

LA TRAMA

Samuel vive nel sud della Francia senza responsabilità e legami: un uomo che del “significato letterale” del concetto di padre, ma soprattutto di paternità, non sa che farci, circondato com’è da belle donne, amici, lusso, serate di puro divertimento.

Nessuna donna penserebbe che potrebbe essere un buon padre. E’ difficile infatti immaginare un passaggio repentino tra nottate di sesso e alcol a nottate e nottate di pannolini e latte in polvere.

E invece questa pellicola narra la storia di un incontro tra un papà e sua figlia. Un incontro non voluto né cercato ma semplicemente avvenuto. Un fato che porta l’uomo verso una direzione creata dalla conversione di varie coincidenze. Un destino che si determina senza essere stato scelto.

Una mattina infatti Samuel riceve la visita di Kristin che gli lascia tra le braccia una bambina di pochi mesi informandolo di essere il padre ed andandosene poco dopo. Inutile i suoi tentativi di rintracciarla recandosi anche a Londra, dove deciderà poi di stabilirsi a causa della perdita del lavoro in Francia. Un altro paese quindi, una lingua sconosciuta e Gloria da crescere.

Una vita che cambia repentinamente e che porta una trasformazione nel protagonista attraverso un processo lento che lo obbliga a crescere come uomo e come padre ed a porsi come unico obiettivo quello di rendere la figlia felice: la bambina infatti trascorre anni sereni e gioiosi, in una casa ed una vita a misura di bambino.

Il secondo colpo di scena è il ritorno della madre che ovviamente porta non poco scompiglio: la donna si è pentita, ha capito l’errore, di avere delle responsabilità ed ora vuole recuperare tutto il tempo perduto con Gloria

Negli anni Samuel, per evitare alla bambina il trauma del sentirsi abbandonata, aveva inventato per la madre una vita da agente segreto in giro per il mondo e che quindi la costringeva lontana da casa. Motivo in più per sviluppare in Gloria un forte desiderio di conoscere la madre e tutti i dettagli di una vita così avventurosa. Una bugia che ci mette poco ad essere rivelata e che spinge la bambina ad allontanare il padre, sentendosi tradita.

Un’occasione che permette alla madre di vivere alcuni giorni di rapporto esclusivo con la figlia e che la porta a decidere di richiederne l’affidamento, anche a costo di mostrarsi una donna fragile, insicura e senza scrupoli. Il passaggio in tribunale è scontato, come anche l’esacerbarsi di una disputa che diventa all’ultimo sangue, nonostante ci sia di mezzo un minore.

Appare infine anche un argomento sottile che molte donne usano ancora per destabilizzare il rapporto padre-figli. Anche August Strindberg nel dramma “Il Padre” presenta questa crudeltà tutta al femminile effettuata nei confronti dell’uomo padre: instillare in lui il dubbio della sua paternità. Ma nel film è la relazione che vince, l’essersi preso cura della bambina l’ha fatto diventare padre della piccola senza ombra di dubbio.

Ed il tutto conduce ad un epilogo commovente ed inaspettato, anche grazie alla presenza costante dell’amico Bernie, un ruolo importante che fa da “ponte” tra i protagonisti e che tutto sommato si potrebbe paragonare alla figura di uno psicologo o anche di un mediatore familiare.

Molteplici sono le riflessioni che scaturiscono da questo film che si segue con il fiato sospeso fino alla fine, quasi fosse un thriller.

 

IL RUOLO DI PADRE

La prima domanda spontanea che emerge in seguito alla visione del film è in riferimento alla genitorialità, nello specifico al ruolo del padre.

Il padre è colui che procrea o colui che si occupa della cura della prole?

Chi ha diritto a chiamare “figlio” un altro essere umano?

E’ importante il legame biologico?

Innanzitutto è necessario dare un significato specifico alla parola “padre” cioè quell’uomo che attraverso il suo seme genera un’altra vita. Concetto che si differenzia da quello di “paternità” che invece è un processo inter e intra-soggettivo che si costruisce prima sul rapporto intrapsichico del padre nei confronti del figlio, poi nella relazione interpersonale che egli instaura con la prole.

Già attraverso questa differenziazione è possibile comprendere quanto la relazione con un figlio non avvenga a prescindere, solo grazie alla metà del DNA, ma piuttosto grazie alla relazione che si instaura con la figura di riferimento.

Un padre che svolge una funzione paterna ottimale è colui che fa sentire la propria presenza al figlio, fisicamente ed emotivamente, instaurando un rapporto empatico, ovvero, la capacità di riuscire ad entrare in contatto con le emozioni e le esigenze primarie che il piccolo vive e manifesta, di saperle cogliere e rispondervi in maniera puntuale ed adeguata.

Nel film, la parola “paternità” non era inserita nel vocabolario di Samuel e tanto meno quella di “padre” ma ciononostante ha tirato fuori una buona dose di resilienza ed è stato in grado di ristrutturare il suo ruolo da latin lover a padre eccelso, il che fa dedurre che anche le persone che sembrerebbero meno indicate per questo ruolo possano diventare degli ottimi padri.

Da un punto di vista psicologico possiamo quindi evidenziare come una paternità non considerata o neanche voluta possa invece far emergere una capacità che l’uomo credeva di non possedere: il prendersi cura, il diventare “padre”.

Se leggiamo la storia da un ulteriore punto di vista si può concludere che quello che all’uomo sembrava un’assurdità, uno scherzo del destino, si è rivelata successivamente l’esperienza più bella della sua vita che l’ha arricchito e gli ha regalato anni importanti, qualitativamente parlando.

Ma soprattutto, la storia di Samuel insegna quanto, in maniera del tutto naturale, non sia il legame biologico a dare valore ad una paternità ma bensì le cure e le premure che si dedicano negli anni ai propri figli. La paternità non appartiene a chi procrea ma piuttosto a chi cresce.

Non sempre, come sosteneva lo psicanalista Aldo Carotenuto, ciò che ci appare bello è bello e ciò che ci appare brutto è brutto: il tempo ed i casi della vita spesso invertono giudizi e pregiudizi.

 

E’ MEGLIO UNA BRUTTA VERITA’ O UNA BELLA BUGIA?

La parola “bugia” fa riferimento ad una cosa non vera, che viene detta ben sapendo di non dire la verità. La bugia quale menzogna è una parola di derivazione germanica, collegata al tedesco “böse” cioè cattivo. Soffermandosi sulla sua etimologia ci si rende conto di quanto rimandi a qualcosa di negativo: a tutti è però capitato di dire almeno una volta nella vita una bugia e, pensandoci bene, non tutte le bugie hanno un fine negativo.

Esistono infatti le bugie nere che denotano qualcosa di negativo, che vengono dette con il chiaro intento di danneggiare l’altra persona, tipiche di persone manipolatrici che hanno imparato a trarre dalle loro false affermazioni, vantaggi materiali o psicologici.

Le bugie bianche invece, le cosiddette bugie a fin di bene, vengono dette per educazione, per evitare dispiaceri o discussioni, per non ferire la sensibilità altrui. Nella maggior parte dei casi si tratta di piccole o grandi “omissioni”, che hanno lo scopo di non ferire o danneggiare psicologicamente l’altro.

E’ proprio a questo tipo di bugie che si assiste nella visione del film “Famiglia all’improvviso”: il protagonista infatti, il padre della piccola Gloria, per consolarla dell’assenza della madre e per non renderla un evento traumatico, le invia mail fingendosi la madre e le racconta le sue avventure di agente segreto in giro per il mondo.

L’intento di Samuel era sicuramente quello di evitare che la piccola crescesse con la consapevolezza di un abbandono da parte della madre; salvaguardandola così da tutto ciò che ne consegue.

Da un punto di vista psicologico è possibile affermare che l’abbandono di un genitore provoca inevitabilmente un enorme vuoto emotivo e una compromissione dello sviluppo psicologico dei figli. A questo si va ad aggiungere inoltre, un danneggiamento dell’autostima, della sicurezza, nella fiducia in se stessi e nelle persone, nella capacità di instaurare relazioni sane e di accettare l’ambivalenza insita in tutte le relazioni umane. Il bambino può arrivare anche ad attribuirsi la colpa dell’abbandono; sentendosi così responsabile dell’accaduto, elaborando anche il pensiero di non meritare l’amore del genitore.

Viene comunque spontaneo interrogarsi sulla correttezza di una tale scelta e nel film spesso Bernie sollecita il padre a dire la verità per evitare situazioni spiacevoli… ma considerando tutte le conseguenze che può causare la consapevolezza dell’abbandono di una madre, si può per un attimo capire la scelta di Samuel.

“Le bugie hanno le gambe corte” e infatti poi anche nel film vengono svelate… ma l’obiettivo è stato raggiunto. Gloria ha vissuto per 8 anni la vita serena di una bambina con due genitori che le vogliono bene.

Probabilmente quindi, seppur omettendo realtà importanti, le bugie bianche si possono anche accettare e comprendere.

 

LA SEPARAZIONE DEI GENITORI

Un altro argomento centrale, purtroppo sempre attuale, è la situazione complessiva e cioè il fatto che ci sono sempre due adulti, due genitori che si fanno la guerra a colpi bassi per contendersi l’affidamento di un figlio.

Si è di fronte ad uno scontro di potere per detenere in esclusiva l’affetto della bambina ed i mezzi prediletti per raggiungere l’obiettivo sono quelli che screditano l’altro anche agli occhi del figlio, oltre che in tribunale. Un condizionamento che va anche oltre la genetica perché colpisce la relazione, la fiducia, la credibilità di un ruolo e costringe un minore a vivere luoghi e contesti non adatti alla sua età ed a giudicare un genitore con gli occhi dell’altro, non con gli occhi del cuore.

E si esclude sempre l’aspetto più importante: l’interesse del figlio.

Ma in questo film gli adulti hanno poi la possibilità di posare le armi, accantonare accuse e cattiverie, guardarsi negli occhi e accettare la loro umanità manchevole, non giudicante ma unita nell’amore per la figlia. E quest’ultima può godersi il diritto ad amare entrambi i genitori.

L’amore non è fatto di pregiudizi ma di accettazione e condivisione e per l’amore di un figlio non deve essere difficile parlarsi serenamente e nel suo esclusivo interesse.

 

 

 

Dr. Cristina Colantuono, Dr. Rosa Genovese, Dr. Laura Niglia, Dr. Assunta Zaffino

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