Il linguaggio in psicoterapia è lo strumento primario e fondamentale della pratica clinica preposto a due funzioni:
1. Conoscere: consente di dare e ricevere le informazioni permettendo al terapeuta e al paziente di entrare ciascuno nella dimensione dell’altro;
2. Curare: il terapeuta approccia attraverso una sua modalità linguistica, significativa, per raggiungere gli obiettivi terapeutici e concretizzando, difatti, una cura attraverso la parola.
Questo dispositivo, da sempre oggetto di studio, è riconosciuto come uno strumento potente perché capace di muovere le menti verso la costruzione di opinioni e significati: sulle cose, su stessi e su gli altri, i quali possono essere positivi e congruenti all’esame di realtà altresì negativi e distorti. Il terapeuta consapevole di questa eccezionale propensione della comunicazione linguistica, se ne serve per smuovere le fondamenta dei pensieri poco funzionali e lavorare al cambiamento di convinzioni negative radicate.
Abilità innata o appresa, cenni storici
Gli studi sul linguaggio hanno attraversato il corso dei secoli, intensificandosi nella seconda metà del 900. Figlie dell’evoluzione e degli orientamenti dell’epoca, le teorie che si susseguirono sostenevano idee in antitesi fra loro: per alcune era una abilità innata; per altre, riconoscendo l’influenza dei fattori ambientali e culturali, acquisita.
Negli anni 60 Chomsky, innatista, sostenne l’idea della presenza di un dispositivo naturale chiamato LAD – Language Acquisition Device – basato su di una grammatica universale, una predisposizione naturale nell’uomo che gli consente di capire e produrre preposizioni in tempi rapidi, sganciandosi dall’intelligenza e dai fattori ambientali.
Alla fine degli anni 70 il linguaggio passa da fenomeno tipicamente intraindividuale a fenomeno sociale e interindividuale: Austin, che si occupò degli enunciati performativi introducendo la teoria degli “atti linguistici”, utilizzò la famosa espressione “fare delle cose con le parole”.
Jerome Bruner, sostenitore della mente funzionalistica, negli studi sulla linguistica passa dal considerare costituenti riconducibili “dal suono al significato” a spostare il focus “dal suono all’intenzione”.
In questa prospettiva, ai fini dello sviluppo, diventava fondamentale il ruolo dell’adulto, come promotore di un modello e come esecutore di una attività di sostegno (“scaffolding”) al quale si somma un patrimonio biologico innato. Pertanto l’evoluzione del linguaggio è resa possibile dal concorso di aspetti sia innati, elementi fonetici e uditivi, che acquisiti, ambienti di crescita permeati da influenze sociali e culturali.
Parti del linguaggio
Va fatta una distinzione in due aree: “linguaggio verbale” e “linguaggio non verbale”.
Il linguaggio verbale è quello costituito di parole, ogni individuo ne possiede un proprio bagaglio non c’è limite alla ricchezza lessicale e alle sue sfumature, come non c’è limite alle strutture grammaticali e sintattiche che supportano le espressioni al fine di consegnare il messaggio in una costruzione adatta all’entourage.
Il linguaggio usato nelle comunicazioni personali private sarà costituito, maggiormente, di parole semplici dal taglio schietto e confidenziale, diverso da quello utilizzato in altri contesti, ad esempio quello lavorativo, ed anche in questo caso ci saranno delle differenze giustificate dai livelli di relazione, conoscenza e cultura fra le parti.
Per comprendere il contenuto è necessario parlare la stessa lingua, nello stesso contesto di riferimento poichè la comunicazione verbale è un’arte pratica in cui l’abilità sta nel “come comunicare”.
La retorica è un ornamento che abbellisce il linguaggio e lo rende suggestivo ed efficace; si pone tre obiettivi: docere, informare sul fatto; movere, commuovere e coinvolgere chi ascolta; delectare, esporre con vivacità per evitare che la noia ostacoli la comprensione. La retorica trova spazio in qualsivoglia tipo di comunicazione e la veste di fascino, intrecciando parole e significati in una trama di suggestione capace di conquistare l’ascoltatore fino a toccarne le corde emotive.
La strada verso il mondo delle emozioni è la direzione preferenziale del lavoro terapeutico il cui traguardo è permettere una esperienza emozionale correttiva significante per il cambiamento.
Milton Erickson, maestro dell’ipnosi conversazionale, era particolarmente incline all’uso del linguaggio suggestivo che permetteva di aggirare il vigile emisfero sinistro, giungere a quello destro (“il cervello poeta”) e indurre lo stato di trans ipnotica, nel quale era possibile entrare straordinariamente in contatto con la parte emotiva, sensibile in quel momento ad una varietà di processi interni che predisponevano naturalmente all’esperienza di correzione di significati.
Paul Watzlawick ha esposto una teoria di base organica, fisiologica, supportata da prove sperimentali, centrata sulla dualità del cervello, affermando che la psicoterapia, per ottenere dei cambiamenti sostanziali, deve rivolgersi proprio all’emisfero destro che le cui forme linguistiche predilette sono quelle tipiche del linguaggio dei sogni, dei lapsus, dei miti e dell’ipnosi.
Accanto all’insigne ruolo svolto dalle parole e delle loro configurazioni linguistiche, la comunicazione si avvale di un’altra componente: la parte “non verbale” nella quale agiscono e si accordano: la gestualità, la mimica facciale, le movenze, alle quali si riconosce un alto potere generativo di espressività emotiva, tale da rendere la comunicazione completa, poiché chiarisce meglio le intenzioni.
Il “non verbale” esibisce, forse meglio, il comportamento della persona perché è predominato da una parte istintiva, involontaria, regolata da specifici centri cerebrali, che difficilmente può essere celata. Il codice comunicativo prodotto da macro e micro movimenti del viso e del corpo è pienamente capace di elicitare le informazioni più sincere e oneste del soggetto, osservabili da un occhio attento.
Il verbale e il non verbale sono i due livelli, che supportandosi, compongono la comunicazione, toccando delle dimensioni profonde, generatrici del comportamento umano; soprattutto in psicoterapia dichiarano e svelano la realtà percepita ed esperita dalla persona, rivelandone il funzionamento, permettono di fare chiarezza sul suo mondo interiore.
Comunicare nella stanza del terapeuta
Ogni territorio ha una soglia di ingresso attraverso la quale passa prima un piede “a fare spazio per il resto del corpo”.
Due esseri umani sono due territori, ciascuno con il proprio mondo interno, che si incontrano, ognuno possiede una porta di accesso in cui si resta sull’uscio per qualche istante a osservare e capire. Quello che avviene tra terapeuta e paziente è simbolicamente questo: mettersi di fronte all’altro, rispettosi ma incuriositi di iniziare e intraprendere un percorso.
Il terapeuta offre un luogo privato di condivisione che permette l’intimità indispensabile per instaurare la relazione, il luogo necessario in cui la persona si senta accolta e si affidi.
Il paziente porta in quello spazio “sé stesso”, ragione e sentimento: con la voce, con il corpo, in ogni modo possibile, e anche con il silenzio, comunica tutto ciò che identifica come problema generatore di sofferenza.
Così diventa voce narrante della sua storia, attore di scena del teatro della vita che si aggira per un palco tra zone di ombra e luce, svelando la mappa tracciata e i percorsi di gioia e dolore toccati; la dimensione che mostra è il prodotto delle esperienze vissute e di come si è mosso fino ad allora.
Il racconto permette al terapeuta di percorrere moderatamente gli stessi passi, cercando di avvicinarsi cognitivamente e emotivamente; il dialogo instaurato promuove domande che aprono e indirizzano il pensiero del paziente al processo di scoperta, su aspetti di sé e della realtà di cui fino ad ora non si era accorto.
Attraverso quel dialogo, che a volte come una spirale ad imbuto permettono di volgere verso ciò che è inconsciamente ignorato, il paziente diventa consapevole delle sue possibilità, racconta i suoi tentativi fallimentari, le sue vulnerabilità ed è proprio questa rivalutazione del vissuto e la consapevolezza delle sue risorse che introducono in modo naturale il processo di cambiamento.
Il linguaggio usato dal terapeuta è eterogeneo: domande alternate, linguaggi analogici ed evocati, metafore e suggestioni.
La nuova espressione emotiva genera l’esperienza che corregge e ripara il disagio.
Il nostro essere più profondo si è strutturato nel tempo grazie a tutto ciò con cui è entrato in contatto, parole e pensieri sono le fondamenta, luoghi sia di pace che di sofferenza.
Le parole edificano ma hanno anche il potere di creare varchi, possono distruggere o modificare le strutture esistenti e lasciare passare ciò che è nascosto.
Tutto questo è il linguaggio terapeutico, il suo potere è quello di operare il cambiamento, un linguaggio che osa, guida, persuade, suggestiona e si prende cura dell’altro.
Dott.ssa Simona Contino