Il concetto di famiglia è molto articolato e può essere analizzato sotto diversi aspetti, ragion per cui è difficile se non impossibile darne una definizione univoca che lo rappresenti. Da un punto di vista psicologico, il paradigma sistemico-relazionale (Wiener, 1948; Van Bertanlaffy, 1968; Bateson et al., 1956) considera la famiglia un sistema cibernetico costituito da più membri connessi tra loro da reciproche relazioni: esso non si identifica esclusivamente in un agglomerato di elementi, ma è qualcosa in più e di diverso della loro semplice somma. Ogni componente del sistema mantiene la propria individualità e attraverso la reciproca interazione con le altre parti genera un’entità dotata di proprietà nuove e capace di autoregolazione: la famiglia è infatti governata da norme che stabiliscono l’ampiezza entro cui un determinato comportamento può variare, mantenendo così un certo controllo sull’equilibrio interno nel momento in cui viene colpito da informazioni nuove che tendono a sbilanciarlo.
Sebbene sia in continua evoluzione, la tendenza di ogni famiglia è quella di mantenere una propria stabilità e coesione interna: di fronte a situazioni che ne alterano gli equilibri costruiti nel tempo, essa può reagire irrigidendosi sui propri meccanismi di funzionamento, opponendosi così al cambiamento, oppure può scegliere di adattarsi alle nuove condizioni che le situazioni comportano. Nei sistemi eccessivamente chiusi, l’apertura al cambiamento incontra ostacoli di diversa natura, che rallentano o addirittura bloccano il processo evolutivo tipico del ciclo di vita familiare: se le regole fossero eccessivamente rigide, il sistema potrebbe non essere in grado di riorganizzarsi in modo funzionale di fronte a un cambiamento – interno o esterno – ed entrare così in crisi, realtà che comporta spesso un’importante sofferenza psichica nei membri che ne fanno parte.
Tra gli eventi che potrebbero drasticamente scuotere gli equilibri di una famiglia, rientra la disabilità di un figlio. Essere genitori di bambini o ragazzi ai quali è stata diagnosticata una qualche forma di disabilità psicofisica, significa trovarsi di fronte a importanti mutamenti che non investono solo aspetti pratici, ma anche e soprattutto relazionali ed emotivi. La coppia genitoriale sperimenta emozioni dolorose come rabbia, senso di colpa, ansia (Bicknell, 1983) e forti preoccupazioni circa la crescita e il futuro del figlio disabile: questi sentimenti, accostati anche ad eventuali cambiamenti e squilibri nei ruoli per quanto riguarda il processo di cura ed educativo, può indurre nel sistema alti livelli di stress e l’adozione di strategie poco adeguate ad affrontare la situazione in modo costruttivo. Al contrario vi è un alto rischio che nella famiglia insorgano dinamiche comunicative e relazionali disfunzionali che finiscono per riversare sulla disabilità tutte le altre difficoltà ed eventuali conflitti che riguardano l’intero nucleo familiare. La persona con disabilità diviene così il “paziente designato” (Selvini Palazzoli et al., 1975; Minuchin, 1978), ovvero il portavoce della sofferenza che affligge l’intero sistema familiare.
Nel presente lavoro sarà presentato il caso di una ragazza adolescente con Sindrome di Asperger che giunge in consultazione a causa di una problematica di ansia dovuta ad una relazione con un ragazzo molto lontano da lei. Nel corso dei colloqui emerge anche una forte condizione di stress vissuto dai genitori e la loro necessità di concentrare la loro attenzione sulla sintomatologia e sulle problematiche tipiche dell’Asperger, elemento che consente loro di non affrontare un normale passaggio evolutivo: G non è più una bambina, ma un’adolescente e questo comporta una nuova definizione non solo della sua identità, ma anche della loro identità come coppia e come famiglia. Il lavoro del terapeuta si è concentrato, pertanto, sulla ristrutturazione delle dinamiche relazionali, dei ruoli e delle identità di tutte le parti costituenti il sistema familiare.
Disabilità e stress familiare
La nascita di un figlio rappresenta un evento pregnante nel ciclo di vita della famiglia, portando spesso con sé un certo grado di confusione e una conseguente riorganizzazione del sistema (Binda, Rosnati, 1997). La coppia genitoriale, in particolare, si trova ad affrontare un grande cambiamento che causa un certo livello stress dovuto non solo al cambiamento della routine familiare, ma anche alla soddisfazione delle esigenze del neonato: la gratificazione che viene dall’accudimento, contribuisce tuttavia ad alleviare la fatica degli sforzi dei genitori e li sostiene nel loro impegno di cura quotidiano (Harrys, Boyle, Fong, Gill, Stranger, 1987). Quando però nasce un bambino con disabilità, le fonti di gratificazione sono minori rispetto a quelle delle famiglie in cui nasce un figlio con sviluppo tipico e, di contro, le tensioni emotive vissute dai genitori sono maggiori rispetto ai livelli di stress normalmente sperimentati (Binda, Giuliani e Salvetti, 2000; Ricci e Hodapp, 2003).
Più nello specifico, la nascita di un bambino con disabilità si configura come un avvenimento sconvolgente, che altera gli equilibri familiari sia per quanto riguarda gli aspetti pratici che quelli emotivi: alle prime reazioni traumatiche dolorose, i genitori possono sperimentare sentimenti di rabbia e sensi di colpa, per arrivare poi ad una faticosa accettazione della situazione (Bicknell, 1983; Montobbio, Lepri, 2002).
Tra i fattori che rendono più vulnerabili i genitori e che aumentano i livelli di stress, rientrano la condizione del bambino e la gravità della sua disabilità, ma anche le risorse della famiglia in termini di status socio-economico e di rete sociale – variabili che possono attutire o aggravare l’impatto della disabilità sul sistema – e, non in ultima istanza, i sistemi di credenze e le strategie di coping dei genitori attraverso le quali è affrontata l’esperienza della malattia e costruito un nuovo adattamento (Minnes, 1988). In questo senso, disporre di corrette informazioni circa la disabilità e il suo decorso facilita nei genitori una percezione della malattia orientata in senso positivo, che a sua volta promuove una ricerca di interventi di cura efficaci e mirati e una minore presenza di problemi legati ai vissuti emotivi (van den Borne et al., 1999). Quando, invece, le informazioni sulla malattia sono carenti e approssimative, la famiglia va incontro a sentimenti di impotenza e adotta stili di coping disadattativi che incidono negativamente sulla cura del figlio, impedendo di trovare nuove risorse utili per migliorare la qualità della vita familiare (Zanobini, Manetti, Usai, 2005).
I lavori presenti in letteratura hanno inoltre evidenziato uno squilibrio nei ruoli materni e paterni in termini di impegno organizzativo ed emotivo: nella maggior parte dei casi, la madre è la figura di riferimento nella gestione quotidiana del figlio disabile e si fa carico della sua assistenza a tempo pieno, spesso rinunciando al proprio ruolo sociale e lavorativo. Generalmente le donne con figli affetti da disabilità perdono la loro identità professionale e si trovano a svolgere esclusivamente funzioni assistenziali, nutrendo scarse possibilità di realizzazione personale (Harris et al., 1987; Sorrentino, 1987; Zanobini, Merione, 2002).
Ulteriori studi (McConkey et al. 2008, Keiko et al. 2001), hanno rilevato che le madri di bambini con disabilità mentale sono più esposte al rischio di stress e che, da un punto di vista più strettamente emotivo, sperimentano sintomi depressivi (Azar, Badr, 2006), così come abbassamenti nell’autostima e sentimenti di tristezza cronica (Scornajenchi, 2002).
I padri, invece, sono tendenzialmente meno presenti nell’accudimento rispetto alle madri, sperimentano più spesso sentimenti di frustrazione e rabbia (Singer, Ethridge, Aldana, 2007) e nel complesso rischiano di non sviluppare solidi legami affettivi con i figli disabili (Keller e Honig 2004), rimanendo così figure periferiche. L’immagine del padre assente, tuttavia, può cambiare nei periodi successivi alla nascita del bambino, divenendo sempre più coinvolta nella costruzione di una paternità più partecipata rispetto al passato (Zanobini, Freggiaro, 2000).
Nei nuclei familiari dove il figlio presenta una disabilità caratterizzata da forte intensità e imprevedibilità, i sintomi stressanti legati all’accudimento sembrano essere più elevati: i genitori di bambini e ragazzi con Disturbi dello Spettro Autistico, per esempio, sperimentano molta fatica ad accettare i problemi comportamentali e le difficoltà comunicative e relazionali tipici dell’autismo –spesso stigmatizzati dalla società- e vivono sentimenti di angoscia, fatica fisica e psicologica (Dabrowska, Pisula, 2010). Numerose sono le ricerche che mettono in luce come i genitori con figli autistici sperimentino livelli di stress significativamente maggiori e minore benessere rispetto alle famiglie dove sono presenti altre disabilità (Abbeduto, 2004; Benson, 2010). Nel loro studio, Blacher e McIntyre (2006) hanno confrontato le condizioni di disabilità intellettiva associata all’autismo con altre patologie, quali la sindrome di Down e la paralisi infantile, notando livelli di maggiore stress e depressione nel Disturbo dello Spettro Autistico, associati alla percezione dell’impatto negativo di questo disturbo del neurosviluppo sulle condizioni dei genitori e sui rapporti familiari più in generale.
La Terapia Strategica nell’intervento sulla famiglia con disabilità
La terapia sistemico-strategica applicata alla famiglia ha origine dalle ricerche sulla comunicazione e sulla schizofrenia effettuate presso il Mental Research Institute di Palo Alto (California), dal gruppo composto da Gregory Bateson, John Weakland, Don Jackson, Virginia Satir e Jay Haley.
Questi autori considerano la famiglia un sistema di relazioni affettive in cui le azioni dei suoi membri si influenzano reciprocamente, ragion per cui ogni azione è a sua volta causa ed effetto delle altre. Il sistema famiglia si evolve e si trasforma continuamente, e allo stesso tempo cerca di mantenere un equilibrio costante che garantisca stabilità e coesione e quindi la conservazione della propria identità. Le credenze, i valori e i comportamenti dei diversi membri della famiglia sono anch’essi in relazione e si influenzano reciprocamente ed è in base a questi che il sistema familiare si organizza e si modifica nel tempo.
In virtù di queste caratteristiche, la teoria sistemico-strategica considera il disagio del singolo come un evento relazionale e lo interpreta tenendo in considerazione la rete dei rapporti familiari in cui il soggetto è inserito e che contribuiscono a loro modo alla sofferenza psichica. In altre parole, il paziente portatore del sintomo comunica attraverso il suo disagio una situazione disfunzionale che riguarda l’intero sistema: in quello specifico momento egli è il canale privilegiato di espressione e per questo viene definito come “paziente designato” (Selvini Palazzoli et al., 1975; Minuchin, 1978). La famiglia, concentrandosi sul sintomo del membro designato, fa sì che i ruoli degli altri componenti restino inalterati e che tutti gli altri problemi del sistema non vengano affrontati.
Una visione più strategica nella terapia familiare viene fornita da Jay Haley (cfr. Haley, Hoffman, 1974), secondo cui il sintomo viene mantenuto e rinforzato dalla stessa soluzione che il sistema famiglia adotta per reprimerlo e che è ovviamente fallimentare e non risolutiva del problema. L’intervento del terapeuta strategico si concentra pertanto sulla comprensione del ruolo che il sintomo riveste all’interno del sistema famiglia e delle dinamiche che lo mantengono. Il primo passo verso il cambiamento è rappresentato proprio dalla ristrutturazione della sintomatologia nel qui ed ora e del suo significato all’interno dei rapporti familiari, anche attraverso l’esplorazione delle soluzioni precedentemente adottate dal sistema per far fronte al problema.
La ristrutturazione è una tecnica di elezione nell’intervento terapeutico strategico e consiste nell’inserire la definizione che l’individuo dà del suo problema all’interno di altri sistemi di significato (Watzlawick, Weakland, Fisch, 1974). Il grande vantaggio di questa strategia è che mostra agli individui un numero maggiore di alternative che prima non erano in grado di considerare perché incastrati nel vicolo cieco delle tentate soluzioni.
La ristrutturazione agisce direttamente sui significati e dimostra come sia possibile arrivare a conclusioni differenti e più funzionali rispetto a quelle che mantengono la sofferenza.
Una volta compresi i meccanismi che contribuiscono alla reiterazione del sintomo, occorre spezzare il circolo che li rinforza, e a questo scopo viene fatto ricorso a prescrizioni di compiti così come a tecniche paradossali (es. la prescrizione del comportamento sintomatico), le quali hanno l’obiettivo di stabilire una connessione nuova tra azioni e convinzioni nel sistema familiare e favorire così stili comunicativi e relazionali alternativi e più funzionali.
Un esempio di terapia familiare strategica: il caso di G.
G. è una ragazza di diciassette anni, frequenta il liceo linguistico e sta vivendo un momento di fragilità emotiva dovuta ad una relazione a distanza con F., un ragazzo che si trova dall’altra parte del mondo.
L’appuntamento viene fissato dalla madre e G. si presenta la settimana successiva accompagnata da entrambi i genitori. Dopo un primo colloquio con la ragazza – in cui G. esterna tutta l’ansia nel rapportarsi con un ragazzo molto distante da lei e nel ricevere un suo feedback – segue un incontro con i genitori, i quali informano la terapeuta che G. ha la Sindrome di Asperger. Quello che emerge immediatamente è un forte stress da parte della coppia genitoriale e il bisogno di concentrare la loro attenzione sulla sintomatologia della sindrome, come spesso accade nelle famiglie in cui è presente un “paziente designato”. Nel corso dei colloqui emerge come l’attenzione che i genitori riversano sulla problematica della figlia consente loro di evitare di occuparsi di questioni più ampie, come la preoccupazione per il futuro della ragazza. In altre parole, in questo caso il vantaggio del sintomo è quello di continuare a pensare a G. come un’eterna bambina, per paura di vederla diventare prima una adolescente e poi un’adulta.
Si evidenzia inoltre la presenza di un legame fortemente simbiotico tra madre e la figlia, e un ruolo più periferico del padre nei confronti della relazione con entrambe: l’eccessiva attenzione sulla Sindrome di Asperger, permette alla coppia di evitare anche di affrontare il rapporto tra padre e figlia, assai deficitario proprio in virtù della solida alleanza che intercorre tra G. e la moglie.
Progressivamente, diviene sempre più chiaro che la difficoltà manifestata dalla ragazza non è esclusivamente individuale, ma appartiene all’intero sistema famiglia, ragion per cui si è reso necessario intervenire sul nucleo nella sua globalità. In primo luogo si è deciso di lavorare con G. sulla sintomatologia ansiosa che, attraverso la strategia della prescrizione del sintomo, affiancata ad alcune tecniche di rilassamento, è sparita in breve tempo. Successivamente, si è iniziato a lavorare sulle tentate soluzioni che i genitori avevano fino a quel momento adottato per fronteggiare il disagio e sulla ristrutturazione delle credenze che la famiglia aveva della sua vita, infrangendo i limiti appresi attraverso una serie di esperienze pratiche. Come sostiene lo stesso M. Erickson, la terapia è una forma di rieducazione e quindi consiste nell’insegnare alle persone a vedere al di là di quello che hanno imparato fino a quel momento.
Nel corso delle sedute sono venuti fuori molti limiti che la famiglia aveva appreso, tra questi l’idea che G. dopo il percorso scolastico non sarebbe stata in grado di proseguire con gli studi universitari, così come la convinzione che la madre sarebbe stata la figura di attaccamento privilegiata nella vita della figlia e la visione di G. come persona che non avrebbe mai acquisito una sua identità e non sarebbe mai stata in grado di condurre una vita autonoma né nel periodo dell’adolescenza né successivamente. Il sistema familiare possedeva tuttavia delle buone risorse ed è stato gradualmente possibile rompere gli usuali schemi di funzionamento dello stesso e inserire poco alla volta degli elementi nuovi.
Il percorso terapeutico ha previsto, dunque, un lavoro sulle relazioni sia tra padre e figlia sia tra marito e moglie. Nel primo caso, l’obiettivo è stato quello di stimolare una conoscenza reciproca più autentica, scevra da pregiudizi reciproci e caratterizzata da una comunicazione efficace, e questo ha fatto sì che entrambi passassero più tempo insieme e che il padre fosse più presente anche nella vita emotiva della figlia, nei suoi momenti di crisi e di ansia, nei quali era sempre intervenuta la madre a fare da scudo. Ciò ha conferito un nuovo significato all’immagine che il padre aveva di sé, anche nella percezione che la moglie aveva di lui come figura periferica in quanto uomo che non poteva occuparsi della vita della figlia. Gradualmente, anche la coppia ha lavorato sul forte legame emotivo che la teneva unita, ma che si era indebolito a causa dell’allontanamento per questioni legate alla situazione della ragazza. In particolare, si è intervenuto sulla ridefinizione della considerazione che avevano della figlia e sulla preoccupazione circa il suo futuro: entrambi erano intrappolati nella paura che la figlia potesse rimanere sola il giorno che loro fossero venuti a mancare, e questa ansia li ha portati a chiudersi ed allontanarsi. Attraverso la verbalizzazione di questi sentimenti e attraverso strumenti come il disegno congiunto della famiglia, alcune parti dell’Intervista Strutturata Familiare di Watzlawick (1966) e le videoregistrazioni, è stato possibile renderli consapevoli della nuova condizione di G.: non più una bambina, ma un’adolescente con la necessità di aprirsi all’esterno e con risorse che sarebbe stato possibile sviluppare. Per raggiungere questo obiettivo, il percorso terapeutico ha visto il coinvolgimento anche delle cugine di G., con le quali la ragazza ha iniziato a passare più tempo insieme, per poi aprirsi alla conoscenza e alle frequentazioni di altri coetanei, come i compagni di teatro.
Attraverso esperienze reali, compiute “a piccoli passi”, questo sistema familiare ha progressivamente perso la sua connotazione chiusa e rigida e si è aperto a nuovi apprendimenti. Oggi G è una ragazza di ventuno anni che frequenta la Facoltà di Lingue straniere, è impegnata in attività come lo sport e il teatro e, ha vissuto alcune esperienze sentimentali. I genitori hanno ripreso la loro vita di coppia e, benché sempre presenti nella vita della figlia, riescono a stare un passo indietro.
Conclusioni
L’obiettivo del presente elaborato è stato quello di mostrare l’applicazione e l’efficacia dei principi teorico-metodologici propri della terapia strategica nell’intervento sulla famiglia.
L’approccio strategico presenta diversi vantaggi nel trattamento di sistemi complessi e articolati come quelli familiari: in primo luogo, pone una grande attenzione al contesto nel quale il singolo è inserito e interpreta la sua problematica alla luce delle relazioni che lo caratterizzano e che influiscono inevitabilmente sul suo funzionamento. Infatti, tale approccio parte dal presupposto che interpretare la sofferenza psichica portata come un fatto meramente soggettivo, significherebbe affrontare il problema in modo parziale.
L’analisi delle dinamiche comunicative, inoltre, permette di cogliere quelle interazioni inefficaci che contribuiscono al mantenimento del sintomo e alla reiterazione di schemi di funzionamento inefficaci. Il terapeuta, in particolare, si focalizza sul processo e non sul contenuto, proponendo gradualmente l’inserimento di schemi interattivi più funzionali.
La terapia strategica, infine, ha il grande vantaggio di progettare interventi pratici pianificati in base alle caratteristiche uniche di un determinato sistema familiare e attuati in modo tale che gli obiettivi dell’intervento siano efficacemente raggiunti nel più breve tempo possibile.
Dr. Valeria Verrastro & Rachele Giubilei
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