Il linguaggio ipnotico di Milton Erickson

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Il linguaggio ipnotico di Milton Erickson

La psicoterapia strategica deve la sua nascita, oltre che il suo sviluppo, agli originali contributi di Milton Erickson (1979, 1988). Egli aveva implementato la tecnica psicoterapeutica con concezioni e pratiche innovative nel campo della suggestione e dell’ipnosi.

Numerosissimi furono i pazienti da lui curati adottando tecniche giudicate “non comuni”, a volte persino screditate e tacciate come “interventi al limite dello sciamanico”, e numerosissimi furono i risultati rapidi ed insperati. Il suo particolare modo di comunicare con i pazienti, non solo attraverso l’uso della trance e dell’ipnosi, era di un’efficacia così sorprendente da valergli l’epiteto di “the Greatest Communicator” (Andolfi et al., 2002). 

L’attribuzione di quest’appellativo può essere giustificata tenendo conto che Erickson comunicava in modo sincrono e contestuale su più livelli di realtà, con un’efficacia tale che anche se veniva in contatto con il solo paziente, era capace di mutare, attraverso di lui, l’intero sistema d’appartenenza. 

Milton Erickson fu colpito durante la sua esistenza da un’infinità di problemi fisici, alcuni dei quali alquanto gravi come la poliomielite, che tuttavia non gli fecero mai perdere la gioia di vivere e la consapevolezza di quanto vi era di bello in ciò che lo circondava. Proprio dalle sue sofferenze ricavò quella straordinaria sensibilità e accortezza per chi viveva disagi anche gravi. In questo i suoi pazienti potevano sentirsi compresi durante ogni intervento che Erickson metteva in atto, potevano vedere un uomo che, nonostante i numerosi tormenti, trovava dentro di sé una forza smisurata. Pertanto lo stesso terapeuta diviene, in Erickson, uno stimolo a mettere in atto le risorse potenziali per superare le avversità che la vita presenta (Zeig, 1990). 

Erickson credeva in queste smisurate capacità presenti in qualsiasi individuo e nell’unicità d’ogni essere umano, non riducibile entro schemi rigidi. Secondo l’autore, le terapie basate sull’analisi, la comprensione e l’interpretazione non possono che mettere in evidenza le carenze di un individuo poiché si focalizzano su cosa il paziente intende comunicare “realmente”, quindi su una sua mancanza. Secondo Milton Erickson, invece, le risorse vengono attivate rispondendo alle espressioni a più livelli del paziente con una comunicazione altrettanto complessa in modo tale che il paziente può sentirsi compreso e non forzato verso una visione monodimensionale della realtà (Zeig,1990). La particolare visione dell’uomo determinerà anche il suo concetto dell’intervento e del cambiamento. Infatti, per Erickson la dualità mente-corpo era soltanto una costruzione teorica. Il modo di avvicinarsi all’individuo deve pertanto essere olistico e onnicomprensivo, tale da riuscir a far coincidere il linguaggio del corpo con quello della mente. Erickson riuscì, ad esempio, mediante la trance ipnotica a far sviluppare il seno in una ragazza che non era capace  di riappropriarsi delle sensazioni del suo corpo, dove invece avevano fallito anni ed anni di cure ormonali (Milton Erickson e Rossi, 1988). Egli credeva che dovessero essere indagati i meccanismi del linguaggio comune mente-corpo se si voleva comprendere l’essere umano in toto,  e sfruttarne interamente le potenzialità. Uno dei maggiori limiti era rappresentato, secondo l’autore, dal fatto che non fossero ancora disponibili conoscenze psico-biologiche adeguate. 

Le tecniche, sopra menzionate, del “ricalco” del linguaggio del paziente, furono introdotte proprio da Erickson con l’intenzione di irrompere nella realtà del paziente e risolvere i problemi derivanti dalla visione disfunzionale della realtà. Tutto ciò avveniva in modo rapido e concreto, mediante la trance ipnotica e non, con risultati strabilianti.

Vi sono alcune caratteristiche fondamentali nelle teorie di Erickson. Prima di tutto il paziente deve essere considerato come dotato di capacità alle quali la terapia non aggiungere nulla  se non la possibilità di utilizzarle differentemente. Pertanto, il linguaggio suggestivo ed ipnotico non deve condurre il paziente nel “gregge” del terapeuta, ma ridefinire le interpretazioni del paziente in modo da renderle funzionali alla sua esistenza (Zeig, 1990). L’ipnosi, in questo senso, può essere considerata come una tecnica eminentemente rieducativa, i cui risultati non possono prescindere dalle capacità del soggetto. Anzi, il compito del terapeuta non è né quello di indagare mediante l’ipnosi nelle profondità della psiche umana, né quello di effettuare il cambiamento al posto del paziente. L’ipnosi è piuttosto uno strumento per riattivare le potenzialità irrigiditesi nel paziente, e guidarlo al cambiamento (Nardone, 1991).

La comunicazione del paziente, durante la sua interazione con l’ambiente sociale, adempie la funzione di irrigidire le risorse e le convinzioni consapevoli del paziente. Il compito dell’ipnosi diviene allora, attraverso la  sospensione di questi meccanismi consapevoli, quello di riappropriarsi delle risorse personali e relazionali della comunicazione, vissute in passato come condizioni vincolanti. Questi legami, che imbrigliano l’individuo, sono appresi durante la storia evolutiva personale e durante l’interazione con il suo ambiente. Attraverso la comunicazione indiretta e inconsapevole si ristrutturano queste modalità relazionali cristallizzate. In effetti, Erickson affermava che in terapia non arrivasse solo il paziente con la sua mente inconscia da far emergere: con lui arrivavano anche i desideri e i pensieri consci ed inconsci, insomma due pazienti. L’abilità di un terapeuta è non parlare solo all’uno o all’altro, ma utilizzare la comunicazione per arrivare ad entrambi. I livelli della comunicazione allora diventano doppi, tripli, e così via, in modo tale da rispettare la complessità dell’universo linguistico della mente umana. Milton Erickson (1988) in merito a quest’argomento dice: 

“esprimo le mie osservazioni alla mente conscia usando parole a cui la mente inconscia dà il significato opposto, oppure il significato speciale che intendo trasmettere. La mente inconscia è molto acuta, molto attenta, e molto, molto primitiva […]. Perciò potete parlare con molta attenzione a livello conscio con la consapevolezza che la mente inconscia vi ascolta”.

Erickson, però, non ha lasciato un corpus teorico definito, o un elenco di pratiche e tecniche stereotipate da adoperare come strumenti invarianti durante l’ipnosi. L’autore era, infatti, convinto che teoria e tecnica rappresentassero un impedimento per la relazione “vera” con i pazienti (Zeig, 1990). Il suo modo di operare mutava di volta in volta, affidandosi alla sua geniale creatività, e contestualizzando le sue intuizioni in base alle persone che richiedevano il suo aiuto. Pertanto l’ipnosi non era considerata uno strumento terapeutico come tradizionalmente inteso, né un fenomeno che riguardava la sola sfera soggettiva dell’individuo, ma una forma di comunicazione interattiva che poteva avvenire tra più soggetti. Infatti, l’assunto di base anche nelle tecniche ipnotiche odierne è che si guarisce non con l’ipnosi, ma in ipnosi (Gulotta, 1997). 

La comunicazione in ipnosi deve essere messa in atto in un clima favorevole e sulla base di un rapporto di fiducia tra i soggetti interagenti. Ciò veniva indicato da Erickson con il termine “rapport”. Questo concetto, divenne una pietra miliare dell’ipnosi ericksoniana, in quanto racchiudeva i termini di “contesto facilitante la comunicazione” e di “osservazione responsiva”. Quest’ultima è da considerarsi come la capacità empatica del terapeuta che, in un rapporto di fiducia, permette di utilizzare i comportamenti dell’interlocutore al fine di instaurare un clima favorevole al cambiamento. Osservare, quindi, diventa di primaria importanza non per cercare interpretazioni, ma per rispondere al paziente in base ai significati che egli stesso intende trasmettere. Ciò permette al paziente di sentirsi compreso e aiutato, e al terapeuta di sfruttare questo tipo di fiducia per indurre il paziente al cambiamento. Allo scopo di instaurare il “rapport”, dopo essersi avvicinato con estrema delicatezza all’universo personale dei suoi pazienti, Erickson utilizzava “benevoli imbrogli” comunicativi dalle caratteristiche paradossali. Ritornando all’esempio del caso clinico della ragazza con problemi di sviluppo al seno, le comunicò: “Io piaccio a suo padre. A lei piace suo padre”. La conclusione, propria di un ragionamento sillogistico, verso cui  è spinta la ragazza diviene: “il dottor Erickson mi piace”. 

Secondo Erickson, l’ipnosi rappresentava la strada preferenziale per mettere in atto delle strategie terapeutiche sottili ed implicite, che con l’utilizzo dei paradossi, delle manipolazioni costruttive, delle metafore e di altre figure retoriche, promuovevano le capacità autoterapeutiche, insite in ogni individuo, ma non sfruttate completamente, quando non addirittura ostacolate dall’individuo stesso. Infatti, per quanto l’autore abbia utilizzato una gran mole di suggestioni dirette, egli può essere considerato come un pioniere nell’utilizzo delle convinzioni del paziente e nella promozione delle sue risorse attraverso le tecniche di suggestione indiretta. La tesi di fondo era: non è tanto ciò che dice il terapeuta ad assumere una rilevanza centrale nel corso della terapia, ma come le comunicazioni del terapeuta sono agite e verbalizzate dal paziente.

Gli strumenti che Erickson utilizzava a questi fini erano la fantasia e l’immaginazione, che prendevano corpo in argute metafore o in geniali paradossi che inducevano il paziente ad inaspettati cambiamenti. Questi strumenti sono comuni anche nella conversazione quotidiana dei soggetti durante un’interazione, ma il modo di utilizzarli attraverso l’impiego sapiente dei registri non verbali, rendeva queste attività comuni dispositivi terapeutici (Mosconi, 1998). Tutto ciò che veniva espresso verbalmente, era sempre accompagnato da un linguaggio non verbale intenso e coerente con ciò che il paziente voleva comunicare, e con le strategie che il terapeuta intendeva seguire.

Un esempio lampante per comprendere l’importanza del registro non verbale (Milton Erickson, 1979), può essere quello in cui l’autore riuscì ad ipnotizzare un paziente solo attraverso una comunicazione mimata, in quanto la differenza di lingua non era facilmente superabile. L’uomo, infatti, parlava solamente spagnolo ed Erickson solo inglese.

 Il tono pacato, il ritmo suadente e penetrante, il calore della voce, l’intensità dello sguardo, erano così naturali in Erickson che non lo abbandonavano mai, neanche in situazioni non terapeutiche, radicati come l’unico modo conosciuto di relazionarsi all’altro. Queste qualità relazionali, umane ed empatiche, rendevano inimitabile il suo stile di “fare” terapia e facevano di lui una “meravigliosa macchina influenzante”(Zeig, 1990). L’abilità di un ipnotista può essere racchiusa nella capacità di trovare la strada giusta nel momento opportuno e con il linguaggio adeguato, nel saper suonare le “corde giuste” in modo da evocare atteggiamenti, aspettative, motivazioni e comportamenti che egli stesso si propone (Gulotta, 1997). Nel fare questo difficilmente si può prescindere dalle indicazioni fornite dal lavoro di Erickson, il quale trovava con una facilità disarmante lo spiraglio per entrare in contatto con i suoi pazienti. 

Una delle sue tecniche più utilizzate, oltre a quella già menzionata della confusione, consisteva nel disseminare concetti e pensieri, apparentemente senza un ordine logico, durante tutta la comunicazione. Il compito dell’inconscio sarebbe stato quello di raccoglierli e di utilizzarli nel modo più proficuo possibile, senza trasformazioni interpretative da parte del terapeuta. Questa modalità d’influenza psicologica implicita, diveniva uno strumento persuasivo irrinunciabile ai fini dell’intervento. La suggestione rappresentava l’unico modo per aggirare la resistenza al cambiamento e per riattivare le risorse dell’individuo (Mosconi, 1998).

Come tali strumenti intervenivano, su quali realtà agivano, quale di questi strumenti avesse più o meno peso, lo stesso Erickson dichiarava di non comprenderlo pienamente. Sta di fatto però, che la loro sinergia funzionava, e tanto bastava, perché il compito del terapeuta, come più volte affermato anche da Haley (1977), è quello di risolvere i problemi portati in terapia. 

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