La fotografia in psicoterapia: quando le parole non bastano

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Nessuna parola potrà mai rappresentare pienamente il sentimento interiore. In circostanze estreme, di solito, le persone rimangono letteralmente senza parole. Questa è la ragione per cui qualunque terapia attuata in loro aiuto, se basata unicamente sull’interazione verbale tra cliente e terapeuta, non sarà mai efficace quanto una comunicazione che includa anche l’uso di rappresentazioni visivo-simboliche in grado di creare un ponte verso l’inconscio, verso quei luoghi in cui le parole non arrivano (e non possono arrivare).

Sul finire dell’800, in un contesto socio-culturale positivista, i fotografi entravano negli ospedali psichiatrici con il compito di “catalogare visivamente” gli aspetti fisiognomici della malattia. Ma alla fine del ventesimo secolo i fotografi indirizzati da spinte sociali decisero di usare il loro strumento non per etichettare ma per celebrare i vissuti degli internati. E nello stesso periodo il Dr. Hugh Welch Diamond iniziò ad usare questo strumento come mezzo di cura e testimonianza del progresso delle sue pazienti.

Uscita dall’ambito puramente psichiatrico, la foto-terapia è diventata una pratica diffusa in campo psicoterapeutico con un’importante distinzione: si definisce PhotoTherapy, infatti, l’utilizzo della fotografia all’interno della relazione clinica, mentre si definisce Therapeutic Photography la fotografia utilizzata dal soggetto come strumento di introspezione e crescita personale

Le cinque tecniche della foto-terapia

A sistematizzare le tecniche da mettere in atto in un processo di cura è stata la psicologa e arte-terapeuta Judy Weiser (1993) distinguendo cinque tecniche che trovano il loro uso migliore in diverse combinazioni, a seconda della situazione di ogni cliente e delle preferenze del terapeuta:

  1. Foto che sono state scattate o create dal cliente facendo proprie le immagini di altri. Ognuna di queste immagini contiene segretamente anche delle informazioni su chi l’ha scattata. Ogni decisione, presa più o meno consapevolmente, sul chi, dove, come, quando e soprattutto sul perché fare o conservare una particolare foto, ha il potere di comunicare qualcosa sia su chi l’ha creata sia su ciò che viene ripreso nella pellicola. Fotografare ciò che li colpisce, inoltre, dà ai pazienti un maggiore controllo sugli aspetti sconosciuti o inattesi.
  2. Foto fatte al cliente da altre persone (sia in posa che in un momento spontaneo). Queste immagini mostrano ai pazienti molti modi diversi in cui gli altri li vedono. Le persone sono spesso molto sorprese di vedere nelle loro foto un “sé” diverso da quello che credevano di mostrare agli altri. Può essere terapeuticamente utile per le persone comparare le foto “in posa” con quelle che non lo sono, così come varie foto scattate loro da diversi fotografi, per vedere come le immagini (percezioni) che ognuno di essi ha di loro siano differenti – e cosa questo possa raccontare circa la diversa relazione tra loro e i fotografi coinvolti.
  3. Autoritratti. Ogni immagine costituirà un’esplorazione di alcuni lati o aspetti diversi di sé non “contaminata” dall’input di qualcun altro. Dal momento che le problematiche connesse con l’autostima, l’autocoscienza, la sicurezza di sé e l’autoaccettazione, costituiscono il nocciolo dei problemi della maggior parte dei pazienti, essere in grado di vedere se stessi, non filtrati dal feed-back degli altri, può avere un effetto molto potente e un grande beneficio terapeutico, offrendo una validazione e una forma di “empowerment”.
  4. Album di famiglia. Vedere se stesse all’interno di un “quadro più ampio”, nei loro contesti personali e storici, spesso aiuta le persone a comprendere meglio la loro situazione e i loro sentimenti attuali. Gli album sono una prova dell’esistenza stessa delle persone: tra quelle pagine dicono al mondo che esse hanno vissuto, e che le loro vite hanno avuto un valore. Osservando i ritmi del più ampio flusso dell’esistenza, le persone possono rifocalizzare la loro prospettiva fuori dal momento immediato della crisi. Gli album permettono alle persone di rivedere (“ri-vedere”) le loro esperienze e le loro relazioni con gli altri, scoprendo qualche significato e qualche scopo nella loro vita.
  5. Foto-proiettive. Le persone proiettano sempre un significato sulle fotografie; semplicemente, non c’è altro modo per vederle. È questa qualità che rende le reazioni dei pazienti davanti alle foto degli strumenti di grande utilità per i terapeuti che cercano di aiutarli a capire meglio il mondo che li circonda. In questo senso, quella delle “Foto-proiettive” è da considerasi più una parte delle altre quattro tecniche che non una tecnica indipendente; essa forma la cornice per tutte le relazioni tra persone e foto.

Photolangage

Con questo termine intendiamo l’utilizzo della fotografia all’interno della psicoterapia di gruppo così come teorizzato in Francia nel 1968 da Claudine Vacheret. L’Autore descrive la tecnica in cui il paziente risponde ad una domanda attraverso la scelta di una fotografia, e ciò consente di creare nel gruppo uno spazio di gioco che mobilita pensieri, idee, emozioni, affetti e fantasie. Il Photolangage favorisce la simbolizzazione, l’Insight e l’accettazione delle diversità: dando un senso all’immagine scelta il soggetto prende coscienza del proprio punto di vista e condividendolo con il resto del gruppo affronta a una discussione da cui si ha la modifica della propria iniziale percezione dell’immagine oppure un aumento della tolleranza della diversità del punto di vista altrui.

Genogramma fotografico

Uno dei primi terapeuti sistemici ad aver integrato la fotografia nella pratica clinica è Rodolfo De Bernart (1999) grazie al quale il genogramma diventa fotografico e la sua simbologia assume una maggiore connotazione emotiva, consentendo al terapeuta di avere accesso sia alle informazioni sul sistema familiare e sulle relazioni tra i membri, sia ai vissuti emozionali del paziente, evocato dalle immagini dei familiari.

CONCLUSIONI

A fronte di quanto esposto, è chiaro come, nell’aiutare i pazienti a rafforzare autostima e amor proprio, nonché a esplorare il modo in cui si presentano agli altri dando un senso alle narrative della loro vita, il terapeuta perderà molte occasioni se non esplorerà anche le foto personali e gli album di famiglia. Le tecniche di FotoTerapia, infatti, possono essere usate per riportare alla consapevolezza informazioni dimenticate, sepolte, o da cui le persone si difendono, nel regno del conoscibile e riconoscibile; specialmente quando riguarda di informazioni non verbali di cui sono in possesso e che non possono esprimere appieno con le parole. Possono far luce su dettagli originariamente registrati come impressioni sensoriali e su eventi di cui si era perduto il ricordo ma la cui importanza, ancora viva, potrebbe non essere riconosciuta fino a quando uno stimolo visivo non aiuta a rendere cosciente tale associazione.

Grazie alle tecniche di FotoTerapia, i pazienti (e il loro terapeuta), dunque, possono ottenere un “quadro più chiaro” della loro vita che vale molto di più delle proverbiali mille parole.

Dott. Ermanno Paoloni

Dott.ssa Micol Lucantoni

BIBLIOGRAFIA

  • Ferrari, Lo specchio dell’io. Autoritratto e psicologia, Laterza, Roma 2002.
  • Piccini, Ri-Vedersi. Guida all’uso dell’autoritratto fotografico per la scoperta e la costruzione di sé, Red Edizioni, Milano 2008.
  • Rossi, Lo sguardo e l’azione, il video e la fotografia in psicoterapia e counseling, Edizioni Universitarie Romane, Roma 2010
  • Vacheret (a cura di), Praticare le mediazioni in gruppi terapeutici, Borla, Roma 2005. (1° ed. Parigi 2002).
  • Weiser, FotoTerapia. Metodologia e applicazioni cliniche, Franco Angeli, Milano 2013 (1° ed. San Francisco 1993).
  • Autofocus, L’autoritratto fotografico tra arte e psicologia 2010
  • J. Weiser FotoTerapia. Tecniche e strumenti per la clinica e gli interventi sul campo, Franco Angeli, Milano 2013

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