I contributi della scuola di Palo Alto divengono le colonne portanti di un ramo della psicologia denominata “psicologia strategica”. Le conoscenze psicologiche, spogliatesi dall’eredità dei concetti di pulsioni ed energie, si arricchiscono dei nuovi apporti derivanti dalla cibernetica, dal costruttivismo sociale e dalla teoria dei sistemi.
Il costruttivismo in particolare è una corrente teorica che attraversa trasversalmente numerosi ambiti della conoscenza umana. Secondo questo paradigma teorico, la realtà è il frutto delle costruzioni individuali mediate dalla negoziazione della realtà di tipo sociale. Un particolare approccio all’interno di questa corrente denominato ”costruzionismo sociale”, sostiene che la mente degli individui è il risultato di una continua negoziazione di significati all’interno delle interazioni con le figure che ci circondano e viene influenzata dal particolare contesto culturale nel quale si sviluppa. Infatti, anche durante lo sviluppo individuale, la nostra identità varia secondo il particolare momento che attraversiamo, in base alle immagini e alle percezioni che hanno gli altri riguardo i cambiamenti che subiamo e al contesto culturale che definisce attraverso norme, valori e rituali il nostro percorso evolutivo (Petruccelli, 2004).
Queste nuove correnti teoriche operano una rivoluzione “copernicana” nell’approccio allo studio della mente. Anche discipline da sempre considerate “scientifiche” ed inattaccabili come fisica, matematica e biologia si ritrovano a dover fare i conti con il ruolo dell’osservatore nella conoscenza fenomenologica della realtà. La conclusione a cui giungono è che la certezza scientifica, l’oggettività, non può esimersi dalle distorsioni derivanti dall’attività stessa dell’osservatore.
La psicologia viene ad essere in una posizione ancor più delicata, in quanto esiste un paradosso: l’oggetto che indaga è allo stesso tempo l’oggetto indagato. Questa constatazione ha creato un bivio epistemologico e cioè: continuare a portare il fardello di conoscenze dogmatiche credendo che esista un oggetto “reale” da indagare, separato dal soggetto, o aprirsi alle nuove teorie della complessità che ci dicono che la realtà è una costruzione, in cui l’apporto soggettivo è inscindibile dalla sua conoscenza?
La psicologia strategica s’incanala sulla seconda strada, che potrebbe sì sembrare più tortuosa ma che si apre a significati sempre più multidimensionali in grado di soddisfare le nuove prospettive emerse nella teoria della conoscenza.
Infatti, dalla spinta centripeta che aveva caratterizzato il modello psicanalitico, si passa al movimento centrifugo che profonde la teoria dei sistemi. Pertanto, mentre prima le persone del contesto con cui l’uomo interagiva apparivano come presenze “fantasmatiche” nel “là ed allora”, ora vengono viste come co-attori irrinunciabili nella costruzione della realtà nel “qui ed ora”.
Nel primo caso si ha una compressione verso l’interno dell’individuo, con il quale l’ambiente c’entra poco o nulla, mentre nel secondo caso assistiamo ad una decompressione dovuta all’apertura dell’individuo all’ambiente esterno, considerato come parte integrante anche dei meccanismi che in apparenza possono sembrare soprattutto soggettivi. Non si è mai soli, e anche il pensiero più recondito ha un innegabile risvolto sociale. Questa è l’eredità di Mead (1952) con la sua concezione di “altro generalizzato”, ovvero di una struttura che si forma durante la socializzazione e che implica la perenne presenza di un interlocutore “esterno” anche durante la sua assenza fisica. Pensare e dialogare divengono in questo modo sovrapponibili. Questo perché soggetto ed oggetto abbandonano il principio di causalità lineare, in cui ad un evento A segue un evento B, per quello di causalità circolare, nella quale A e B divengono sincroni e con-testuali.
Ancora una volta, come abbiamo visto in precedenza, il sistema non equivale alla somma aritmetica delle sue parti, ma è qualcosa di più, di nuovo e di diverso.
Le basi teoriche dell’approccio strategico
Se l’oggetto di studio della psicologia non può essere un soggetto dato a priori e avulso dal suo contesto, e neanche l’ambiente sociale come determinante l’universo individuale, dove si sposta l’interesse conoscitivo in psicologia? Questo interrogativo porta in seno una svolta epocale. La risposta che la nuova psicologia dà in questo campo, è né verso l’uno né verso l’altro, ma sulle relazioni tra soggetto e ambiente circostante.
Le relazioni sono co-costruite dall’interazione con altri soggetti, e l’interazione tra questi ultimi si fonda essenzialmente sulla comunicazione. Qualsiasi azione, anche un semplice silenzio, è comunque un atto comunicativo. Sembra evidente il sorpasso delle precedenti visioni deterministiche.
La maggior parte delle terapie, infatti, partiva dal presupposto che le persone dovevano diventare consapevoli delle cause dei propri problemi in modo da poterli fronteggiare (dov’era l’Es, ora regna l’Io). Nelle psicoterapie strategiche invece, il punto di partenza è “catturare” il paziente ricalcando il suo linguaggio e, attraverso l’uso di stratagemmi terapeutici, stravolgere l’usuale percezione della realtà delle persone ritenuta la causa di “rigidità disfunzionali” nel sistema.
Pertanto, il sintomo non è considerato più, come nella tradizione prettamente medica, l’effetto manifesto di una malattia sottostante. Esso è una modalità d’interazione con il contesto, di definizione della realtà e, come tale, un atto comunicativo. Se esistono stati ansiosi, ad esempio, essi devono essere di una certa utilità per il soggetto, oltre che avere una funzione comunicativa, altrimenti la loro comparsa non avrebbe senso. La psicoterapia strategica mira non a mutamenti profondi e alla scomparsa di questi sintomi, che il più delle volte portano al perenne invischiarsi in “giochi senza fine”, ma all’assunto paradossale di rivolgere il sintomo contro sé stesso.
La de- strutturazione del sintomo, attraverso suggestioni e prescrizioni comportamentali e la sua ri-strutturazione in nuove narrative e nuovi contesti relazionali, permette ai pazienti di usare esperienze emozionali correttive in grado di far assumere un significato diverso e funzionale alla sofferenza psichica (Gulotta, 1997). Ciò deve avvenire prima di tutto in modo inconsapevole, per poi, una volta ottenuto il cambiamento, portare alla consapevolezza dei soggetti le modifiche avvenute. Le esperienze emozionali correttive sono per lo più pianificate dal terapeuta, e mirano ad affrontare eventi analoghi al problema portato in terapia. Queste situazioni divengono metaforiche e paradossali per il passaggio ad una diversa cornice interpretativa, ma risultano utilissime al fine di trovare soluzioni “altre” per relazionarsi all’ambiente. Il compito del terapeuta in questo senso, diviene quello di aiutare il paziente ad aiutarsi, promovendo una crescita umana duratura attraverso la modifica e l’arricchimento delle competenze sia individuali che sociali, adoperando la suggestione come una forma d’arte (Petruccelli, 1999).
Utilizzeremo una metafora adoperata da Watzlawick (1976, 1974, 1997) per rendere l’idea del ruolo del terapeuta: l’individuo durante la sua esistenza può essere considerato come un marinaio che si trova in mezzo all’oceano, senza l’ausilio di carte nautiche. Egli si ritrova a dover affrontare un percorso incerto e tortuoso, e non può che orientarsi solo con una visione parziale dei pericoli e dei problemi, affrontandoli passo dopo passo, onda dopo onda. Solo una volta completata la traversata, potrà avere una visione completa e globale di quale rotta lo abbia condotto in salvo. Al terapeuta è richiesto, dunque, il compito di saltare a bordo dell’imbarcazione al fine di catturarla, assumerne il controllo e condurla in porti sicuri.
La differenza essenziale con gli altri approcci sta nel fatto che nell’approccio strategico l’intervento rispecchia la visione caleidoscopica della realtà, quindi non c’è mai un’indeformabilità dell’intervento. Questo può essere svolto sia su un piano strettamente individuale, che sulla coppia o sulla famiglia, con l’obiettivo di individuare il punto del sistema che permette il cambiamento nel modo più veloce ed efficace possibile. A differenza di quanto avviene in altri indirizzi, non è accettabile, in quest’ottica, che siano i problemi dei pazienti a doversi adattare alle griglie interpretative del terapeuta. Nella psicoterapia strategica ogni situazione clinica rappresenta un caso a sé e l’unico elemento comune è l’utilizzo di strategie che conducono i pazienti a percepire in modo diverso sé stessi, gli altri e gli ambienti d’appartenenza.
Per raggiungere questi obiettivi la terapia strategica si serve di “…ristrutturazioni, prescrizioni comportamentali dirette o indirette, paradossi e trabocchetti comportamentali” (Nardone, 1991). Questi interventi aprono le strade della terapia alle modifiche di secondo ordine, e vale a dire a quell’ “apprendere ad apprendere” indicato da Bateson affinché ci sia un sostanziale cambiamento nell’approccio a sé stessi e agli altri. Infatti, se il cambiamento di primo ordine presuppone che non venga modificato il contesto nel quale si apprende, nel cambiamento di secondo ordine è proprio la modalità di apprendere nei contesti che risulta variata.
Watzlawick (1974) per rendere questi concetti, si rifà all’esempio del vivere un sogno. Egli afferma che durante l’attività onirica noi possiamo fare molte cose: camminare, piangere, urlare, guidare, ecc., ma il variare di queste attività (cambiamento di primo ordine), non può farci uscire dal contesto del sogno. L’unico cambiamento contestuale possibile si ha quando passiamo dal sogno alla veglia, in cui è proprio il contesto, nel quale si svolgeva quella sequenza d’attività, ad essere modificato (cambiamento di secondo ordine).
La terapia strategica mira proprio a modificare questi contesti in cui il manifestarsi del sintomo rappresenta un coacervo di “tentate soluzioni” al problema, come un circolo vizioso nel quale si accrescono i disagi, ogni qual volta l’individuo tenta di porvi fine. Le reazioni di fronte alle sensazioni, i pensieri, le emozioni derivanti dalle situazioni problematiche divengono il problema stesso. Così gli stati ansiosi, per tornare all’esempio precedente, si alimentano proprio delle sensazioni spiacevoli provocate dalla rigidità delle risposte alle esigenze dell’ambiente e del loro continuo perpetuarsi a discapito di risposte diverse, adattive e funzionali.
E lo strumento per antonomasia con cui interviene il terapeuta strategico per raggiungere questi risultati è essenzialmente la comunicazione.