La psicoterapia strategica si differenzia dalle altre psicoterapie (psicanalitiche, rogersiane, comportamentali e cognitive) poiché l’intervento dello psicoterapeuta è attivo, energico, rispetto ad un intervento “minimo” postulato da queste ultime. Pertanto, il linguaggio adoperato dalla comunicazione strategica è suggestivo ed ingiuntivo. Anche il più piccolo particolare dell’interazione viene sapientemente vagliato, al fine di “catturare” il paziente e instaurare un’atmosfera suggestiva che pervada lo spazio e il tempo della comunicazione, aumentando così il potere nelle mani del terapeuta. Inoltre, il parlare lo stesso linguaggio del paziente aumenta in quest’ultimo la sensazione di sentirsi compreso e aiutato, contribuendo all’instaurarsi di un clima di fiducia che rappresenta una premessa cruciale per il felice esito di un trattamento psicoterapeutico.
La suggestione è utilizzata come mezzo per aggirare la resistenza al cambiamento, che non ha bisogno di essere interpretata come nelle altre psicoterapie, dove essa è ritenuta come dotata di un significato simbolico da svelare e portare alla consapevolezza (Haley, 1963). Questo perché, come affermato in precedenza, la resistenza al cambiamento è una modalità di relazione con il contesto, che comprende l’universo di tutte le “tentate soluzioni” che caratterizzano il problema. Bisogna sempre tener presente che essa è funzionale all’individuo, anche se genera malessere. Il terapeuta deve dunque assumersi in prima persona la responsabilità di andare oltre ad essa, mettendosi innanzitutto in gioco per de-strutturare la visione disfunzionale della realtà che crea il problema.
LE TECNICHE COMUNICATIVE
Durante le diverse fasi dell’intervento, questo obiettivo può essere raggiunto “manipolando” la realtà, attraverso l’utilizzo di metafore, artifici, paradossi, trabocchetti, prescrizioni dirette o indirette, doppi legami terapeutici.
L’impiego di questi strumenti da parte del terapeuta passa attraverso un “evento casuale pianificato”, ovvero un evento in grado di produrre l’esperienza di “un’emozione correttiva”, che nasconde in sé elementi in grado di raggiungere e modificare metaforicamente il paziente (Skorjanec, 2000).
Se si prescrive ad un soggetto claustrofobico un’esperienza che evoca il restare chiusi in un luogo angusto, si sta in quel momento agendo su un livello di realtà diverso da quello specifico del problema, ma si ottengono risultati anche e soprattutto sul piano della realtà che provoca il disagio nell’individuo e che s’intende modificare (Gulotta, 1997). Questo concetto richiama quello di “ridondanze intercontestuali” (Bateson, 1999), ossia specifici nodi relazionali, che si possono scovare nell’esplorazione dei molteplici contesti con i quali l’individuo interagisce. Per esempio, se un individuo taglia minuziosamente la bistecca che si appresta a mangiare, potrebbe non esserci nulla di strano, il fenomeno potrebbe non avere nessuna rilevanza psicologica e non avere nessuna comunicazione fondamentale da veicolare ai fini della terapia. Se invece, come con la bistecca, l’individuo ripresenta metaforicamente il modo di spezzettare i suoi legami affettivi o i compiti che deve svolgere in minuscoli frammenti, allora quest’attività diventa “ridondante” e di rilevanza estrema ai fini dell’indagare i suoi modi di relazionarsi all’ambiente.
Agire in terapia con le metafore, gli aneddoti, i paradossi, rende operabile l’intervento sulle ridondanze. Essi devono far parte del bagaglio operativo del terapeuta strategico e risultare sempre pronti all’utilizzo, in qualsiasi momento il terapeuta lo ritenga necessario. E’ utile ricordare che la comunicazione strategica è sempre orientata al cliente e non può che focalizzarsi sul problema portato in terapia. Il linguaggio deve adattarsi al modo di esprimersi e di relazionarsi del paziente. Utilizzare ad esempio metafore “dotte” con pazienti provenienti da un contesto socio-culturale basso, si rileva di grande inutilità, oltre che controproducente ai fini della ristrutturazione dell’organizzazione percettiva della realtà.
Le potenzialità insite nell’individuo sono invece attivate dalla costruzione “suggerita” strategicamente dalle ingiunzioni e dalle prescrizioni paradossali del terapeuta, in modo confacente al paziente ed orientate alla soluzione del problema che porta in terapia.
Il linguaggio utilizzato varia all’interno delle psicoterapie strategiche da un uso molto teatrale della prescrizione ad un livello più sottile, in cui l’ingiunzione non è diretta ma serpeggia all’interno delle parole, possedendo qualità evocative e di comunicazione “acuta” ed implicita.
In ogni caso, il linguaggio suggestivo non è sempre uguale durante l’intero trattamento, né applicabile alle diverse tipologie di pazienti che si hanno di fronte. Infatti, la suggestione viene usata in modo più marcato durante le prime sedute per poi andarsi affievolendo dopo la fase di “cattura” del paziente. Tuttavia, pur aumentando il linguaggio di stile descrittivo man mano che si procede verso la fine del trattamento, la comunicazione indiretta resta sempre il mezzo preferenziale per raggiungere il paziente. Infatti, pur essendoci miglioramenti nel corso della terapia, se essi vengono comunicati in modo diretto, possono spingere il paziente alla situazione paradossale di non accettare l’evidenza delle evoluzioni dei suoi comportamenti (Nardone, 1991).
LE PRESCRIZIONI
Le prescrizioni comportamentali adoperate dal terapeuta strategico possono essere di tre tipi: dirette, indirette o paradossali.
- Le prescrizioni DIRETTE sono dichiarazioni ingiuntive che il terapeuta esplicita chiaramente, in modo ripetitivo, alla stregua di disposizioni date sotto l’effetto di una trance ipnotica. Questo tipo d’ingiunzioni possono avanzare richieste di comportamenti sia all’interno della seduta, che come compiti da svolgere al di fuori della cornice terapeutica. Molte volte vengono usate come veri e propri rituali che “esorcizzano” il tema centrale portato in terapia, altre volte riguardano compiti che possono percorrere strade trasversali per raggiungere l’obiettivo principale. Resta, in ogni modo, di vitale importanza ridefinire in positivo i risultati emersi da questi rituali, e che il paziente si senta ripagato dagli sforzi che questo tipo di prescrizioni comportano.
- Le prescrizioni INDIRETTE mirano, come già accennato in precedenza, a distogliere l’attenzione dell’individuo dal problema che provoca sensazioni d’angoscia ed impotenza, rivolgendola ad altri compiti che sono ritenuti dal terapeuta attuabili secondo le capacità del paziente. La funzione positiva di tali prescrizioni è quella di focalizzarsi sulle possibili risorse del paziente, che si sente più competente per la totale assenza dei sintomi durante lo svolgimento dei compiti suggeriti dal terapeuta. Infatti, risulta alta la percentuale di pazienti che, dopo aver ricevuto ingiunzioni che distoglievano la presenza ossessiva del sintomo, tornavano dal terapeuta meravigliandosi della sua non- manifestazione. Ciò non significa però fuggire dal problema, ma dimostrare che un’altra realtà, dove il problema, il sintomo, non pervade l’esistenza quotidiana del paziente, è possibile. Giungere a questo traguardo non è impresa facile, né cosa da poco. L’onda dopo onda a cui ci riferivamo in precedenza, è un processo fatto di questi piccoli obiettivi, ma raggiungibili, e d’esperienze vivibili senza il rischio di arenarsi su ulteriori falsi problemi, che una terapia protratta indebitamente nel tempo può invece costruire.
- Le prescrizioni PARADOSSALI svolgono la funzione di suscitare il sintomo del paziente in modo volontario. Quest’atto ha la conseguenza cruciale di dare un senso di padronanza del problema e non più, semplicemente, di subirlo in modo inconsapevole (Gulotta, 1997; Petruccelli, 1999). Se ad esempio un paziente non riesce ad uscire di casa senza aver dato, mentre si pettina, quaranta colpi di spazzola prima a destra e poi a sinistra, il fatto che il terapeuta prescriva al paziente proprio questo comportamento, anche con piccole variazioni sul tema, rende il problema non più destabilizzante, ma un compito da svolgere e da padroneggiare. Il sintomo attraverso l’utilizzo del paradosso è rivolto contro se stesso; più che un deficit diviene un’arma, nelle mani del terapeuta prima e del paziente poi.
LE TECNICHE STRATEGICHE
Una tecnica comunicativa particolarmente efficace adoperata nella terapia strategica è quella di portare il paziente a credere che vi siano più alternative di scelta nell’attuare un comportamento che il terapeuta ritiene non alla portata del paziente. Anche nella vita quotidiana, se proviamo a chiedere cento euro in prestito ad una persona, e poi gliene chiediamo dieci in seconda battuta, abbiamo sicuramente più possibilità di ricevere quei dieci euro. Secondo lo stesso principio, se richiediamo al paziente di scegliere tra un compito che sicuramente gli procurerebbe un malessere eccessivo, rispetto ad un altro (quello realmente voluto dal terapeuta) dove il disagio è minore, avremo più possibilità che egli non si rifiuterà di attuarlo (Haley, 1973).
Una delle modalità di comunicazione da evitare durante la psicoterapia è quella che prevede toni “seriosi” e intonazioni drammatiche, onnipresenti nella psicologia del profondo. La comunicazione, per essere efficace, non ha bisogno di note tragiche, né tanto meno uno psicoterapeuta, per essere definito serio, forzatamente deve assecondare lo stereotipo del medico inflessibile, distaccato, caratterizzato dall’assoluto divieto d’essere ironico. Anzi, proprio la capacità di prendersi in giro indica l’“esserci”, la volontà di mettersi in gioco e di interagire con l’altro. Giocare vuol dire, infatti, essere in un’altra cornice, rendere possibile l’attività affettiva, cognitiva e comportamentale, in una dimensione “ri-creativa”. L’ironia può essere considerata una metafora, un modo parallelo per guardare e vivere la realtà, con tutte le conseguenze de-strutturanti e la gran mole di creatività di cui essa è portatrice. L’umorismo durante una seduta può alleviare la tensione, esorcizzare le sensazioni negative legate a particolari problemi, contribuire a creare un clima di fiducia e di cooperazione, a trasmettere contenuti che difficilmente possono essere comunicati diversamente ed a far accettare concetti che il terapeuta pensa essere “tabù” per il paziente (Petruccelli, 1999). Inoltre, risulta di vitale importanza affinché l’ironia sia di maggiore efficacia, l’utilizzo anche dei canali non verbali, che possono rendere più rilassante e divertente un racconto (Gulotta, 1997).
La TECNICA DELLA CONFUSIONE, di derivazione ericksoniana, è adottata soprattutto con persone che tendono a dare una spiegazione logica a tutti gli eventi della loro vita. Essa prevede che, durante l’esposizione prolungata di fatti rigorosamente in ordine razionale, il terapeuta intervenga in modo da confondere il paziente con argomenti non attinenti al tema trattato dal paziente e senza il benché minimo ordine logico, ma con l’atteggiamento proprio di chi tratta un argomento serissimo. La strategia si conclude con un’ultima fase che richiama il tema inizialmente intrapreso dal soggetto. Questa tecnica è d’importanza cruciale nel comunicare sottilmente ingiunzioni. Questi interventi, infatti, confondono il soggetto sulla validità di assumere un atteggiamento iper-razionale verso alcuni temi ossessivi che irrigidiscono gli schemi comportamentali di questi individui (Nardone, 1991). Il terapeuta dovrà, però, fare particolare attenzione nei confronti di pazienti inibiti da razionalizzazioni eccessive, assumendo il controllo di tali limitazioni in modo tale da suscitare un senso di protezione nel paziente e simultaneamente indirizzarlo a lavorare per diminuirle (Petruccelli, 1999).
Alcune tecniche comunicative sono state introdotte da Haley (1963). Per la raccolta delle prime informazioni in seduta, l’autore suggerisce di ordinare al paziente di tacergli qualcosa in modo tale da non permettere a questa riluttanza, che comunque si sarebbe presentata, di fornire il controllo al paziente sulla relazione. Per ottenere il controllo della relazione a suo favore, il terapeuta dovrà, però, lasciarsi ingannare su aspetti meno importanti per far accettare la sua “onnipotenza” in tutte le altre situazioni decisive ai fini della terapia (Haley, 1977).
Altre tecniche mirano alla comunicazione diretta sul sintomo per renderlo controllabile. Infatti, il terapeuta, qualora preveda una ricaduta, la comunica al paziente. Con questo atto la rende gestibile in modo tale che la riacutizzazione del sintomo non viene vissuta come un fallimento. Allo stesso modo se si prescrive un aggravamento del sintomo, ne viene aumentata la possibilità di controllarlo. Il sintomo può anche essere simulato in modo tale da rendere meno probabile che dalla sfera della finzione possa travasarsi nell’ambito “reale” delle esperienze quotidiane del paziente (Haley, 1963; Gulotta, 1997; Petruccelli, 1999).
Comunicare strategicamente, infine, non significa negare le visioni del paziente, ma accettarle per incanalarle in modo positivo. In questo modo si permette al paziente di non sentirsi rifiutato ed incompreso. A questa ridefinizione in positivo delle comunicazioni del paziente, nella terapia strategica, si affianca il linguaggio ingiuntivo. L’uso efficace dell’ingiunzione consiste nel promuovere prescrizioni in grado di gratificare il paziente per il suo modo d’affrontare la realtà, riconoscendogli il merito dell’interpretazione, anche se sbagliata, e subito dopo imporre al paziente di indirizzarsi verso comportamenti più funzionali.
LE TIPOLOGIE DI PAZIENTI
Si possono distinguere diverse categorie di pazienti con i quali dovrà variare il modo di comunicare del terapeuta. Skorjanec (2000) riprende la distinzione originaria di Nardone, che prevedeva quattro classi di soggetti:
1. soggetti collaborativi;
2. soggetti potenzialmente collaborativi;
3. soggetti oppositivi;
4. soggetti incapaci sia di collaborare che di opporsi.
I soggetti collaborativi sono quelli con i quali non è necessario utilizzare “raggiri” ai fini della terapia, mentre il linguaggio da adottare che risulta più utile per la ristrutturazione e il cambiamento in tempi rapidi e con la massima efficacia possibile, è quello logico-descrittivo. In questi pazienti, infatti, non è compromessa del tutto una certa flessibilità intercontestuale. Descrivere ciò che il problema rappresenta e la strategia atta a farvi fronte, può essere il passo decisivo verso le correzioni di cui il sistema, individuale o ambientale, ha bisogno.
Nei soggetti potenzialmente collaborativi, la caratteristica predominante sembra essere la rigidità ad abbandonare determinati stili comportamentali, pur se le risorse individuali e sociali ne lasciano intravedere la possibilità di modifica. E’ il caso ad esempio delle fobie: con questi pazienti, il grado di suggestività del linguaggio è alto e sono messi in atto tutti i “trabocchetti” linguistici del repertorio terapeutico, al fine di irrompere nel sistema percettivo dell’individuo. La comunicazione sposta l’attenzione eccessiva che questi pazienti riservano al sintomo e al tentativo di controllarlo. Molte volte, infatti, è questo l’unico pensiero che pervade l’intera giornata trascorsa da questi pazienti. Aiutare a pensare in modo “divergente” permette di apprendere una serie di atteggiamenti che lasciano la possibilità di liberarsi da “fissità mentali” che impediscono una visione multimodale della realtà e delle alternative di scelta presenti nel contesto (Gulotta, 1997).
Il focus dell’intervento divengono allora le risorse che, tramite il linguaggio strategico, sono esaltate in soggetti che non immaginano neanche di possederle. L’utilizzo di racconti, aforismi ed aneddoti permette a questi pazienti di comprendere che esistono comportamenti e modi di rapportarsi diversi da quelli che è abituato ad utilizzare. La funzione delle tecniche immaginative consiste proprio nel permettere al paziente di accettare, nel senso voluto dal terapeuta, idee che possono poi essere applicati alla vita reale. Per raggiungere questo obiettivo, l’immaginazione deve essere stimolata descrivendo ”visivamente, olfattivamente, gustativamente, cenesteticamente, uditivamente” tutto ciò che si intende rappresentare come se stesse realmente accadendo, in modo da far provare al paziente le medesime sensazioni (Gulotta, 1997).
La possibile identificazione con i personaggi di altre storie deve essere uno degli strumenti terapeutici da immettere al momento opportuno. Aggirare l’attenzione del paziente, spostando l’oggetto della comunicazione ad un altro attore portatore dei medesimi problemi, si rivela un ottimo veicolo di suggestione, in grado di attirare il paziente in “altre” realtà. E’ il caso anche delle metafore, la cui funzione è di entrare dalle porte secondarie, come quando si cerca di cogliere un ladro con le classiche “mani nel sacco”. Fare del rumore, durante questa fase (cioè cercare interpretazioni), non può che far fuggire il ladro con tutta la refurtiva al seguito. Per rendere l’idea, mi rifarò ad un aneddoto, riportato spesso in letteratura, su Freud: un giorno si presentò nel suo studio una signora con sintomi isterici; alla fine della prima seduta, Freud le disse, dopo averle interpretato un sogno, che secondo lui non era una figlia naturale dei genitori attuali, bensì una figlia adottiva. La signora tornata a casa, parlò con la madre, la quale le rivelò la fondatezza di quell’intuizione. La signora ne fu talmente scossa che non rimise più piede nello studio del padre della psicanalisi. In questo caso, nessuno si era preso la responsabilità in prima persona di guidarla verso il cambiamento, il ladro era scappato, portando con sé la possibilità di effettuare una terapia. Ai fini del successo di una psicoterapia, quell’intuizione seppur così geniale, si era rivelata un totale fallimento.
Riprendendo il nostro discorso, risulta palese che solo una volta scardinata la visione usuale degli avvenimenti, si possono fornire gli strumenti al paziente per affrontare il problema, e solo a terapia conclusa si può avere una piena consapevolezza di quali e quanti cambiamenti siano avvenuti. Anticipare ciò che si può intuire dalle storie narrate dei pazienti, senza la mentalità di uno “stratega”, può portare la nave a naufragare.
I soggetti oppositivi giungono in terapia con la volontà ferrea di non aderirvi. Essi si oppongono a qualsiasi tentativo d’intervento, squalificando ogni manovra del terapeuta. Come rispondere al paradosso posto da una persona giunta in terapia, la quale afferma con la sua presenza di voler essere aiutata, ma che, allo stesso tempo, sostiene “Nessuno riuscirà mai ad aiutarmi”? Una terapia di stampo classico potrebbe perdersi in giochi “senza fine” con l’obiettivo di analizzare i significati reconditi di tale opposività. La psicoterapia strategica, dal canto suo, propone una soluzione tanto innovativa quanto geniale: rivolgere l’opposizione contro se stessa, attraverso la comunicazione paradossale e la creazione di doppi legami terapeutici. Se s’invita il paziente ad essere quanto più oppositivo possibile, affermando che questo tipo d’atteggiamento è proprio quello più adatto a capire il problema, si pone il paziente di fronte ad un contro paradosso, ad un bivio terapeutico. Egli può scegliere due strade: 1) perseverare nell’atteggiamento oppositivo, ma questo diventerebbe non più squalificante, poiché il paziente ammetterebbe di collaborare con il terapeuta., oppure 2) opporsi all’invito d’essere ancora più oppositivo, eliminando così proprio la resistenza che si considerava fortezza inespugnabile. Il sistema, come si vede, è costretto a collassare dall’interno, come durante le demolizioni di vecchi palazzi da sostituire. Qualunque sarà la scelta del paziente, il terapeuta non si lascerà sfuggire l’occasione di ottenere la sua collaborazione, lasciando lo spazio e il tempo alla comunicazione strategica per ri-progettare e ri-costruire nuovi edifici.
I soggetti incapaci sia di collaborare che di opporsi si presentano come i casi più difficili da trattare, in quanto hanno una seria compromissione dei meccanismi metacognitivi del linguaggio (ovvero della capacità di comunicare sulla comunicazione) essendo impelagati in rigide costruzioni della realtà. In molte situazioni (come nei deliri e nei racconti allucinatori), essi assumono le loro fantasie come l’unica realtà possibile e vivibile. In questi casi molte delle tecniche enunciate precedentemente potrebbero non funzionare. Infatti, l’aspetto metaforico del discorso potrebbe non essere decodificato, non per volontà del soggetto, ma per un reale malfunzionamento delle capacità metalinguistiche. La tecnica del terapeuta strategico, in questo caso, non mira alla dimostrazione che queste costruzioni sono false. Il suo compito è quello di entrare in queste costruzioni per insinuare il dubbio e, con il passare del tempo, portare all’auto-collasso le costruzioni del paziente. Il terapeuta a questo scopo contribuisce aggiungendo sempre nuovi elementi alle narrative, non distruggendole. Egli diviene un co-narratore, in grado di far prendere una direzione diversa al dispiegarsi della trama e, perché no, di riscriverne delle nuove.