I 5 Assiomi della Comunicazione

0

I 5 ASSIOMI DELLA COMUNICAZIONE

Ed eccoci con il secondo articolo sulla Comunicazione, abbiamo iniziato questo percorso con la Scuola di Palo Alto 

Un passo fondamentale nello studio della comunicazione si ebbe con la pubblicazione di “Pragmatica della comunicazione umana” di Watzlawick (1967). Per “funzione pragmatica della comunicazione”, egli intendeva la capacità del linguaggio d’avere conseguenze sul piano comportamentale nei contesti in cui l’uomo interagisce. Qualsiasi fenomeno resta inspiegabile senza una cornice contestuale che lo comprenda o, nel migliore dei casi, un individuo potrebbe attribuire al fenomeno in questione qualità che non gli appartengono. In questo senso non esiste comunicazione senza un comportamento, né un comportamento senza che esso veicoli un qualche significato. 

Secondo l’autore bisogna indagare le due modalità attraverso cui la comunicazione espleta questa funzione e cioè la comunicazione verbale e non verbale.

Secondo Watzlawick, esistono all’interno di questi due canali, delle regole, dei principi, consapevoli o inconsapevoli, che nel caso fossero violati, potrebbero trasformare una comunicazione efficace in una disturbata.  Gli assiomi formalizzano queste regole con la conseguenza che quando uno di essi viene contravvenuto, la comunicazione stessa può esserne deviata a tal punto, da provocare comportamenti patologici.

     Non si può non comunicare

Non esiste azione o parola umana che non ci metta  in comunicazione con le persone che ci circondano. E’ impensabile il concetto di non-comportamento. Se una persona con la sua passività, i suoi silenzi, esplicita la volontà di non comunicare con un altro individuo, egli sta comunque inviando un messaggio, e quindi, si perdoni il gioco di parole, comunica di non voler comunicare. Per comunicare inoltre non è necessario che ci sia una logica razionale che pervada il testo. E’ il caso della modalità comunicativa degli schizofrenici: essi tendono a squalificare la comunicazione attraverso deliri, l’opporsi all’interlocutore, il rinchiudersi in prolungati silenzi. Questi sono comunque atti comunicativi, anche se non seguono i principi di razionalità delle modalità d’espressione “normale”. Il sintomo, in questo senso, assume il carattere di un disturbo comunicativo, più che di un deficit da far scomparire come lo si era inteso in precedenza, esso è l’unico modo possibile di relazionarsi al contesto vissuto come ostile.

I messaggi possiedono un aspetto di contenuto ed uno di relazione

In quest’assioma si ritrova il punto di maggior distacco dalle teorie precedenti. I messaggi scambiati tra gli esseri umani non possono essere considerati, sic et simpliciter, mere trasmissioni d’informazioni. La complessità delle interazioni umane deve far supporre che oltre al contenuto oggettivo del linguaggio, ovvero le informazioni che esso trasmette in superficie, vi sia anche un aspetto che definisce la relazione stessa dei soggetti interagenti. 

I disturbi provocati dalla contravvenzione di quest’assioma possono essere facilmente immaginabili. Se il capoufficio chiede ad un suo sottoposto di svolgere un lavoro, egli con questo messaggio stabilisce una relazione caratterizzata dal potere che egli esercita su un altro individuo. Pensate quale possa essere invece la reazione del nostro impiegato se quella richiesta gli venisse da uno sconosciuto o da un pari grado.

 Le distinzioni però non sono sempre così evidenti. Allora ci ritroviamo spesso durante la nostra esistenza ad intraprendere vere e proprie lotte, consapevoli o non, per stabilire quale sia la natura della relazione intercorrente tra noi e i nostri interlocutori. Questo aspetto relazionale del messaggio è definito “metacomunicazione” in quanto, sincronicamente o addirittura prima ancora di analizzare il contenuto manifesto dei sistemi verbali, esiste questo continuo “tendere a” co-definire le regole del gioco, questa sottile e implicita comunicazione sulla comunicazione. 

Se questo processo non viene condiviso da entrambi gli interlocutori, ci si ritrova a giocare una partita a scacchi senza comprendere le regole e l’obiettivo del gioco.

Il flusso comunicativo è espresso secondo la punteggiatura degli eventi

La comunicazione comprende diverse versioni della realtà, che si creano e ristrutturano durante l’interazione tra più individui. Queste diverse verità dipendono dalla punteggiatura della sequenza degli eventi, ossia dal modo in cui ognuno tende, “arbitrariamente” ed in modo unilaterale, a credere che l’unica interpretazione possibile della realtà sia quella costruita da egli stesso. Ciò però comporta, qualora non si pervenga ad un accordo tra chi dialoga, ad una riduzione della complessità del reale. La conseguenza è che può sorgere un conflitto tra ciò che si ritiene essere la causa o l’effetto dei comportamenti durante un’interazione  perpetuandone le forme di azioni e controreazioni durante la comunicazione. Per esempio, le  liti coniugali si fondano essenzialmente su queste dinamiche poiché, spesso, ognuno di loro crede che i problemi nascano a causa ed in risposta a quelli dell’altro (Gulotta, 1995).

La punteggiatura dirige, dunque, il flusso comunicativo e le modalità di interpretarlo; l’influsso della cultura su di essa, ci permette di ottenere almeno la condivisione degli aspetti basilari che servono ad organizzare  e codificare esperienze comuni e frequenti. 

Questo gioco relazionale che coinvolge i comunicanti sarà fondamentale nel discriminare una comunicazione efficace da una disturbata. Classico è l’esempio di chi ritiene d’essere antipatico agli occhi degli altri. Questa tipologia d’individui riesce a considerare così reale tale punteggiatura degli eventi, che qualsiasi atteggiamento, azione o parola, insomma ogni atto comunicativo, diviene quello di una persona  antipatica, con il risultato di ottenere proprio quello che pensava: essere antipatico agli occhi degli altri. 

L’eccesso a cui la psicologia potrebbe spingersi in questo senso è, ad esempio, convincersi che i terapeuti, che si considerano persone “normali”, vedrebbero la sola realtà giusta, quella “vera”, mentre le persone che soffrono di disagi mentali, la vedrebbero in modo distorto, “sbagliato” (Watzlawick, Nardone, 1997). Le nefaste conseguenze di una convinzione del genere sono facilmente prevedibili. Nel prossimo capitolo prenderemo in esame come quest’assioma, queste “tentate soluzioni” che divengono il problema stesso, saranno di rilevanza vitale ai fini della psicoterapia strategica.

Comunicazione analogica e digitale

La comunicazione avviene attraverso i canali verbali e non verbali. Il primo utilizza modalità digitali, l’altro criteri eminentemente analogici.

Con il linguaggio digitale si veicolano gli aspetti di contenuto citati in precedenza. Ciò che caratterizza questa modalità comunicativa è l’arbitrarietà e l’alto grado di convenzione tra le parole e ciò che rappresentano. L’unione, ad esempio, delle lettere c-a-s-a riproducono nella nostra mente ciò che tutti sappiamo: una casa. Ma avrebbero anche potuto rappresentare un albero, un fiume o quant’altro, senza modificare le qualità originarie della casa. Insomma, non esiste un’analogia strutturale tra la casa reale e la sequenza arbitraria delle lettere c-a-s-a., il fatto che essa rievochi un’abitazione è il risultato di un accordo convenzionale.

Con il linguaggio analogico si veicolano prevalentemente gli aspetti di relazione ed esiste un’esatta corrispondenza tra il significato ed il significante. Quest’ultimo mantiene con il primo una relazione non arbitraria, cioè risulta connesso al significato da un’analogia. In essi si ritrova un’elevata corrispondenza tra espressione e realtà che s’intende evocare. Il ridere di gioia (comunicazione non verbale) ad esempio si suppone non sia una convenzione, ma l’espressione non arbitraria di una realtà sottostante (l’emozione provata).

L’osservazione della congruenza tra i due sistemi è uno degli indici a cui facciamo continuo riferimento durante le nostre interazioni. Se una persona afferma di essere interessata ad ascoltarci e poi evita in tutti i modi di instaurare un contatto oculare, questa discrepanza può influire sull’esito stesso della comunicazione. Inoltre, le nostre relazioni sono continuamente alla presa con la conversione di messaggi analogici in digitale, e viceversa. Un’errata decodifica, ad esempio di ciò che osserviamo (analogico) in ciò che pensiamo (digitale) del nostro interlocutore, può provocare l’errata interpretazione della realtà relazionale e contestuale in cui siamo immersi. Spesso i fraintendimenti durante una conversazione nascono proprio dall’errata decodifica dei segnali inviatici dall’interlocutore e dalla loro interpretazione distorta (Gulotta, 1995).

Le relazioni simmetriche e complementari

Watzlawick suddivide due tipologie di relazioni che si possono instaurare tra individui che comunicano, e che riguardano la posizione di leadership assunta nel dispiegarsi dell’interazione. Pertanto nelle relazioni simmetriche si ha un rapporto paritario tra i due poli della comunicazione, in quanto nessuno dei due attori accetta un ruolo di dipendenza. Siccome quest’atteggiamento non assume un tono neutro in cui le due forze si annullano, ma piuttosto i connotati di una vera e propria disputa, si assiste ad un’escalation d’aggressività, paragonabile ad una corsa agli armamenti, un processo che Bateson (1999) definì “schismogenesi”. Nelle relazioni complementari invece, uno dei due soggetti in un momento specifico dell’interazione riconosce le posizioni e l’interdipendenza dell’altro. L’ effetto è in questo caso il consolidamento e l’efficacia della comunicazione, in quanto i diversi comportamenti dei partecipanti rispecchiano i ruoli che ognuno ha all’interno del contesto. Ciò, ovviamente, non significa che dominare o sottomettere l’avversario sia la conditio sine qua non della comunicazione efficace, tutt’altro. Infatti, Watzlawick prevede che ci sia anche una forma di relazione simmetrica sana, dove l’aspetto dell’accettazione dei ruoli porta alla fiducia reciproca ed alla conferma delle aspettative che si hanno verso l’altra persona. La complementarità diviene disfunzionale solo quando irrigidisce e cristallizza l’altro in forme immutevoli, soffocandone la personalità e costringendolo in una posizione di “dipendenza emotiva ed intellettuale” (Gulotta,1995). I ruoli non sono maschere che una volta indossate restano in eterno sul volto degli individui. Il riconoscimento dei ruoli varia da momento a momento, da comunicazione a comunicazione, da contesto a contesto. Quest’assioma ribadisce dunque che non si può comunicare efficacemente se si oscurano le caratteristiche dell’altro, e che solo ad avvenuto ri-conoscimento e allo stabilirsi dell’interdipendenza, all’alternarsi sapiente di complementarità e parità, la nostra realtà s’integra con quella delle persone che ci circondano (Gulotta, 1995).

Lascia una risposta